Trivelle, petrolio e salute: il caso della Basilicata

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Nelle perforazioni si userebbero sostanze pericolose come composti radioattivi e interferenti endocrini. A dispetto di 30 anni di estrazioni la Basilicata è la regione più povera del Sud e sicuramente una tra le più malate. Un intervento della dottoressa Rosanna Suozzi, medico e attivista No-Triv.

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Non si può parlare di impatto sulla salute delle estrazioni petrolifere senza analizzare alcuni aspetti a queste connessi, né si può parlare di trivellazioni, in Italia, senza citare il caso emblematico della Basilicata. Le perforazioni esplorative e le trivellazioni, innanzi tutto, non considerano mai l’impatto sanitario, provocato sia dall’uso dell’uranio impoverito (Brevetti della Halliburton 1984 e 2011) che da un mix di altri composti radioattivi e metalli pesanti, sulla testa delle trivelle, sia dall’utilizzo di solventi e sostanze chimiche (circa 700 secondo Dr Susan C. Nagel of the University of Missouri School of Medicine), usati per favorire la penetrazione delle trivelle nel sottosuolo.

Tali elementi, aumentano l’insorgenza di interferenze endocrine sia in età pediatrica che nell’adulto. In particolare, ciò comporterebbe l’ aumentata l’incidenza di cancro della mammella nelle donne e di tumore alla prostata negli uomini. Anche gli scarti della lavorazione petrolifera, ossia i cosiddetti fluidi di perforazione (per un barile di petrolio sono necessari circa 160 lt di acqua), contaminando acqua e suolo, altererebbero la catena alimentare, causando anch’essi  danni alla salute.

A ciò vanno aggiunti  gli effetti dannosi prodotti dall’acido solfidrico (o idrogeno solforato), nocivo anche a basse dosi, che rappresenta il principale prodotto della lavorazione petrolifera, soprattutto nel petrolio lucano, di  qualità inferiore, per l’alta concentrazione di zolfo, e perciò definito “heavy, sour crude” (pesante e amaro) in quanto più viscoso e corrosivo.

E’ necessario, quindi, per il suo raffinamento, utilizzare sia maggiori quantità di acqua che pressioni e temperature altissime, con liberazione di sostanze altamente tossiche e cancerogene tra cui il cobalto e il molibdeno. Dalle fiamme della combustione, infine, vengono emessi almeno altri sessanta inquinanti cancerogeni tra cui benzene, formaldeide, idrocarburi policiclici, acetaldeide, etc.

E’ di appena poco tempo fa, una interpellanza urgente, dall’esponente del Pd Alessandro Bratti, presidente della commissione bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, insieme ad altri trenta parlamentari, secondo cui “La Basilicata, a fronte di introiti per 159 milioni, ha subito un inquinamento dell’aria e delle falde acquifere preoccupante. Chiedo al governo di riconsiderare e quindi modificare, in tempi brevi, la Strategia Energetica Nazionale, promuovendo la produzione di energia da fonti rinnovabili e riducendo, al contempo, la produzione di energia da fonti fossili”.

Nel 2012, invece, è stata esposta la “Relazione territoriale sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella regione Basilicata”, documento della competente commissione parlamentare, che ha evidenziato un quadro sconvolgente, se pur parziale, della Basilicata (documento XXIII n. 17). Si legge: “Nel corpo della relazione dell’anno 2000 sono state riportate, inoltre, alcune problematiche attinenti il rischio di smaltimenti illeciti cui appariva esposta la regione, evidenziate dalle diverse autorità interpellate (in particolare, prefetto e autorità giudiziaria). Allarmante era il dato relativo agli 890 siti inquinati censiti, la metà dei quali connessi alle attività di prospezione petrolifera”.

In Basilicata, si è compiuto, di fatto,  un autentico scempio dell’ambiente che ha interessato l’aria (inquinamento dagli impianti di desolfurizzazione petrolifera, stoccaggio e estrazione, inceneritori, cementifici, ferriere), il suolo (fanghi delle lavorazioni petrolifere, incidenti delle estrazioni, interramento rifiuti, acidificazione della Val D’Agri) e l’acqua, la vera ricchezza di cui dispone la regione, fonte di vita non solo per i suoi abitanti ma anche per alcuni milioni di cittadini di Puglia, Campania meridionale  e Calabria settentrionale, che dipendono dai suoi bacini idrici.

Il disastro ambientale lucano, infatti,  è connesso non solo alle estrazioni petrolifere attuali, ma anche alle attività correlate (desolfurizzazione, stoccaggio, reiniezione e trattamento reflui,  trasporto) e  a tutti i sondaggi petroliferi effettuati che hanno interessato circa  482 pozzi (dall’inizio del ‘900, vedi  relazione/decreto Corte dei Conti Regione Basilicata 2014). A ciò si aggiunge il sistema di discariche e di incenerimento, legato al  ciclo di gestione integrata rifiuti  (Fenice San Nicola di Melfi, ), e quello relativo alle centrali a biomasse (Centrale del Mercure, Bernalda, Senise), cementifici (Barile e Matera), insediamenti industriali, aree SIN (Val Basento, Tito), impianti di produzione del bitume (Baragiano, Sant’Angelo Le Fratte), ferriere (SiderPotenza) e, da ultimo, il ciclo di trattamento scorie radioattive (Itrec della Trisaia a Rotondella).

Non si conoscono, ufficialmente,  i risultati di studi epidemiologici sulla salute dei lucani, anche se, in  uno studio pubblicato in “Current Cancer profiles of the italian regions “, l’incidenza di  patologie tumorali è superiore a quella registrata al  nord Italia, dove sono situate industrie con  alto inquinamento ambientale. Il registro dei tumori, in Basilicata, nonostante il disposto del  DL n. 179/2012, convertito definitivamente in legge il 13.12.2012, non è ancora accreditato AIRTUM e, come ampiamente riportato dagli organi di stampa, è carente delle statistiche riguardanti i tumori della tiroide, i tumori ginecologici, la classificazione dei tumori ematologici, nonché  dei dati di otto comuni. Non abbiamo dati neppure sulla percentuale di aborti spontanei, indice precoce di inquinamento, né quelli sulle malformazioni, sullo spettro autistico e sui tumori infantili.

Gli effetti sulla salute, determinati dalle estrazioni petrolifere, però sono ben noti essendo stati ampiamente studiati in varie località del mondo come in Ecuador, delta del Niger, USA sia per quanto riguarda le trivellazioni in terra che per quelle offshore (Brasile). Tali studi hanno dimostrato che le popolazioni residenti nel raggio di 500mt-1km, dai pozzi petroliferi, hanno una incidenza maggiore sia di tumori, anche infantili, che di patologie croniche e malformazioni congenite. Emblematico è il caso dell’Ecuador: quando la Texaco  iniziò l’estrazione del petrolio, il cancro non era noto nella regione. Quaranta anni dopo, rappresenta  uno dei  più gravi problemi di salute con incidenze altissime di leucemie,  cancro dello stomaco, della vescica  e del cavo orale.

Emblematico è  il termine coniato come “resource curse”, letteralmente maledizione delle risorse, per illustrare le ingiustizie e la violenza che spesso si accompagnano alla scoperta delle risorse naturali. Su una delle riviste scientifiche più prestigiose “The Lancet” è stata pubblicata, in passato, una lettera  dal titolo “Injustice and health: is the health community listening?” che analizza quanto avvenuto in Nigeria dove, oltre ai problemi di salute e quelli ambientali, la popolazione subisce anche una vera ingiustizia sociale.  L’aspettativa di vita è di circa quaranta anni di età e, nonostante l’incalcolabile valore economico dei circa 606 pozzi petroliferi e cinquant’anni  di estrazioni (80% del Pil nazionale), la Nigeria rimane uno dei paesi africani più poveri.

Sorge spontaneo il paragone con la Basilicata: a dispetto di trenta anni di estrazioni è la regione più povera del Sud e sicuramente una tra le più malate.

(Articolo originariamente pubblicato sul blog zeroviolenza.it, riprodotto con permesso in una versione abbreviata: qui l’originale)

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