Il Governo contro l’inevitabile sviluppo delle fonti rinnovabili

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Mentre in diverse parti del mondo si investe nelle fonti pulite e vengono messe in campo strategie energetico-climatiche di lungo periodo, il governo italiano sostiene la ricerca di idrocarburi e conduce una guerra a bassa intensità, ma continuativa, contro le energie rinnovabili. Un articolo di G.B. Zorzoli.

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È assurdo che una strategia energetico-climatica assuma come orizzonte previsionale il 2050, come hanno fatto Francia, Germania, Regno Unito? All’Italia sembra di sì. Eppure si tratta del minimo necessario per evitare investimenti sbagliati, con i costi, non solo economici, che ne deriverebbero.

Installare linee o centrali elettriche tradizionali, gasdotti, terminali GNL richiede tempi lunghi sia per il permitting e la successiva realizzazione, sia per il ritorno degli investimenti. Nessuno prenderebbe una decisione del genere, se non prevedesse di poter utilizzare l’impianto per qualche decina d’anni. In quest’ottica, trent’anni rappresentano il limite inferiore. Aggiungiamocene almeno cinque per le autorizzazioni e la costruzione: se decide nel 2015, un’impresa ben gestita deve quindi valutare la convenienza dell’investimento traguardando come minimo il 2050.

Proiettarsi nel futuro è inoltre meno rischioso che in altri ambiti. Nel settore energetico è difficilmente pensabile l’equivalente della legge di Moore, secondo cui le prestazioni dei processori, e il numero di transistor in essi contenuti, sarebbero raddoppiati ogni 12 mesi (oggi diventati 18). I soli investimenti e tempi richiesti per completare la fase precommerciale (ricerca, sviluppo, industrializzazione) sono di un altro ordine di grandezza. L’interpretazione teorica dell’effetto fotoelettrico risale al 1905. La prima cella fotovoltaica è del 1954, ma una sua significativa penetrazione sul mercato incomincia soltanto negli anni ’90 del secolo scorso. Se ne sono accorti i venture capitalist americani, quando qualche anno fa hanno esteso i loro interventi alle innovazioni energetiche. Abituati ai rapidissimi tempi di ritorno degli investimenti nel mondo digitale, sono velocemente scappati da quello dell’energia.

I lunghi tempi di ritorno degli investimenti e l’intrinseca rigidità del sistema tendono a rallentare non solo la penetrazione delle innovazioni tecnologiche radicali, ma anche delle grandi trasformazioni organizzative e gestionali. Se a queste caratteristiche, intrinseche ai sistemi energetici, aggiungiamo:

  • gli effetti dell’interazione energia-ambiente, che in una prima fase hanno portato all’introduzione di limiti sempre più stringenti alle emissioni inquinanti e successivamente alla definizione di obiettivi a medio e lungo termine per contrastare il cambiamento climatico,
  • le tendenze oligopolistiche, tipiche di sistemi dove finora hanno prevalso grandi investimenti su larga scala, che hanno favorito la presenza dominante di grandi gruppi finanziari e industriali, per cui l’evoluzione dei loro orientamenti non può essere trascurata nel valutare le prospettive future,

è possibile fare previsioni sensate sulla base di quanto conosciamo oggi, purché ci si liberi dalla dittatura del business as usual.

Ciò che ora si vede

Nel periodo 2000-2013 l’84% dell’incremento delle nuove FER è venuto da eolico, bioenergie e fotovoltaico; contemporaneamente siamo passati da produzione elettrica immessa direttamente nelle reti di distribuzione praticamente nulla al 21,9% del totale nazionale, mentre tra il 2007 e il 2013 l’autoconsumo è salito da 6.794 a 14.306 GWh, malgrado il paral­lelo calo della domanda.

Poiché il secondo trend è chiaramente conseguenza del primo e, per realizzare in Italia gli obiettivi fissati dalle roadmap europee, nel 2030 le FER dovranno soddisfare almeno il 60% dei consumi elettrici, mentre nel 2050 dovranno coprire praticamente il 100% della produzione, una parte crescente della generazione elettrica verrà immessa direttamente nelle reti a media e a bassa tensione, con una quota, pure in salita, destinata all’autoconsumo “esteso” (singoli prosumer o microreti locali). Come vedremo più avanti, esistono strumenti per facilitare questo trend.

Una simile trasformazione sarà resa più agevole dall’ormai prossima disponibilità di sistemi di accumulo (SdA) affidabili e a costi contenuti. Lo scetticismo in materia, ancora prevalente fino a pochi mesi fa, ha perso terreno da quando il 1° maggio scorso Tesla ha presentato “Powerwall”, sistema d’accumulo per le normali abitazioni, disponibile nella taglia da 10 kWh per 3.500 $ oppure da 7 kWh per 3.000 $, e “Powerpack”, combinazione di più batterie, che parte da 100 kWh e, modulo dopo modulo, può raggiungere 10 MWh di capacità. Un risultato peraltro atteso, grazie alle continue innovazioni tecnologiche e al consueto learning by doing.

Questa drastica diminuzione dei prezzi potrebbe rivelarsi soltanto l’antipasto, qualora la batteria agli ioni di alluminio, sviluppata all’Università di Stanford, riuscisse a superare l’attuale limite di tensione (circa 2 V). L’alluminio è un elemento chimico relativamente abbondante (mentre il litio è piuttosto scarso), quindi il costo di base sarebbe inferiore. La batteria ha inoltre un ciclo di vita molto lungo (almeno 7.500 ricariche fino alla perdita totale di capacità, un salto enorme rispetto alla media di 1.000 ricariche in quelle attuali agli ioni di litio), una ricarica rapidissima (si parla di un minuto) e, caratteristica tutt’altro che trascurabile, non è a rischio d’incendi.

Il futuro ci parla dunque di SdA capaci di svolgere tutti i servizi di rete e di fornire alla generazione diffusa l’opportunità di vendere l’energia prodotta quando è commercialmente più conveniente. I SdA troveranno quindi applicazioni molteplici, dalla rete di trasmissione in giù, fino alle utenze domestiche, modificando in misura rilevante la situazione attuale, anche sotto il profilo del rischio: l’evento estremo che la regolazione dovrà risolvere, non sarà più il blackout, ma il burnout (evitare che nello stesso istante troppi SdA immettano energia in rete).

Ciò che già si intuisce

La disponibilità di sistemi d’accumulo affidabili e a costo contenuto era anche l’ultima tessera mancante per la competitività dei veicoli elettrici. Le automobili e i mezzi leggeri per trasporto merci sembrano pertanto destinati a passare alla propulsione elettrica in tempi più brevi di quanto fosse immaginabile solo pochi anni fa, mentre per il trasporto pesante su strada e per quello marittimo sta prendendo piede l’utilizzo di GNL e, in misura minore, di GNC (gas naturale compresso), opzioni facilitate dai sempre più stringenti vincoli ambientali, che hanno già imposto l’adozione di GNL per il trasporto marittimo nel Baltico.

Se ne è avuta conferma alla 3rd International LNG Conference for Transport, tenutasi a Roma nei giorni 11 e 12 giugno scorsi, dove il responsabile Eni per il settore ha annunciato che in Italia GNL e GNC potrebbero coprire fino a un quarto della domanda di energia nei trasporti al 2030, proiezione coerente con quanto prevede il documento di consultazione del MiSE sulla strategia nazionale per il solo GNL: 20% della domanda nel 2030.

Se ai cambiamenti indotti da mobilità elettrica e da GNL/GNC aggiungiamo il contributo da parte dei biocarburanti e, sulla base delle previsioni dell’Unione petrolifera, tra il 2014 e il 2030 assumiamo un incremento medio del 10% nell’efficienza dei mezzi di trasporto, al 2030 la domanda di benzina e gasolio (pari al 70% del barile di greggio) dovrebbe più che dimezzarsi.

Dopo il 2030, i prevedibili incrementi nelle prestazioni dei sistemi di accumulo renderanno progressivamente più attraente la propulsione elettrica anche per il trasporto pesante su strada, assegnando in prevalenza al GNL/GNC l’alimentazione del trasporto navale. Inoltre, è possibile che si passi dalle prime sperimentazioni all’utilizzo dell’energia solare per il trasporto aereo.

Possiamo quindi prevedere per il 2050 la quasi totale scomparsa dei prodotti petroliferi dal settore dei trasporti, per ciò stesso rendendo il greggio fonte primaria marginale.

Ciò che possiamo far accadere

La Direttiva europea 2010/31, recepita in Italia, ha stabilito che a partire da inizio 2019, se pubblici, e da inizio 2021, se priva­ti, gli edifici di nuova costruzione dovranno avere un fabbisogno energetico molto basso (quasi nullo), coperto in misura rilevante da energia rinnovabile prodotta in situ (NZEB: Near Zero Energy Building). Come mette in evidenza la tabella 1 (di seguito), in Italia lo stock di nuova edilizia è andato rapidamente decrescendo a partire dagli anni ’80 e, crisi a parte, in un Paese già eccessivamente cementificato è destinato a rimanere molto basso.

Un contributo aggiuntivo verrà dalla demolizione degli stabili irrecuperabili, costruiti negli anni del boom edilizio. Per accelerare l’adozione di NZEB, sulla falsariga di quanto suggerito agli Stati membri dalla Direttiva europea 2010/31, basterebbero adeguate misure per «incentivare la trasformazione degli edifici ristrutturati in edifici a energia quasi zero». Se questa scelta venisse fatta, data la vetustà del nostro parco edilizio (tabella sopra), la sua stragrande maggioranza diventerebbe NZEB entro il 2050.

Per questa via si garantirebbe altresì il rilancio dell’industria delle costruzioni lungo l’unico percorso realmente praticabile, mentre gli interventi di efficientamento energetico e d’installazione in situ di impianti FER diventerebbero automaticamente voci obbligate degli “acquisti” compiuti dalle aziende che effettuano le ristrutturazioni, stimolando lo sviluppo di nuovi prodotti: per esempio, l’integrazione del solare termico e fotovoltaico in impianti ibridi e vetri che incorporino in modo efficiente la generazione fotovoltaica (see through).

Poiché il 90% degli italiani già oggi abita in agglomerati urbani, in tal modo si faciliterebbe la crescita dell’autoconsumo o dello scambio locale (tramite microreti) dell’energia termica ed elettrica prodotta nei singoli edifici. Grazie anche alla diffusa presenza di accumuli per entrambi i vettori energetici, le reti di distribuzione elettrica, del gas e di teleriscaldamento avrebbero la funzione prevalente di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; non, come oggi, quella di erogare elettricità, gas, calore. Occorrerà quindi individuare le modalità per assicurare la sopravvivenza economica di queste infrastrutture, nella misura in cui serviranno ancora.

Biomassa da valorizzare

La biomassa è l’unica fra le fonti rinnovabili che, per la sua complessa struttura molecolare, ha un elevato contenuto d’informazione. Oggi è sostanzialmente trasformata in calore, utilizzato tal quale o convertito in energia elettrica, fornendo un contributo importante alla sostituzione dei combustibili fossili, che continuerà a dare anche nel prossimo futuro. Tuttavia, è lecito porsi un interrogativo. Poiché la biomassa è risorsa oggettivamente limitata e i suoi altri utilizzi non devono interferire con l’esigenza primaria della nutrizione, in una prospettiva di lungo periodo non sarebbe opportuno privilegiare, per quanto possibile, le trasformazioni che ne conservano al meglio il contenuto d’informazione?

Non a caso, va acquisendo consensi crescenti l’ipotesi di non bruciare il biogas, ma di estrarne il biometano. Si tratta di un percorso gestibile in modo ottimale, quando si inserisce la produzione di biogas in un ciclo agricolo con una seconda coltura dopo il raccolto per il mercato, destinata appunto, insieme a residui vari, a generare biogas, mentre il digestato concima il suolo, arricchendolo di carbonio (soil carbon sequestration).

L’adozione di questo modello, che oltre tutto incrementa i ritorni economici per l’agricoltura, vede l’Italia all’avanguardia e andrebbe pertanto generalizzato con opportune politiche di sostegno. La valorizzazione massima del contenuto di informazione della biomassa è attuabile anche privilegiando lo sviluppo di quelle che impropriamente vengono definite bioraffinerie, mentre in realtà sono biofabbriche, in grado di ottimizzare lo sfruttamento dei principali componenti della massa legnosa (cellulosa, emicellulosa, lignina) mediante la produzione congiunta di biopolimeri, fitofarmaci, coloranti, biocarburanti, biolubrificanti, ecc. Se questi apporti della biomassa verranno privilegiati, anche la frazione del petrolio destinata alla produzione chimica andrà progressivamente diminuendo.

Poiché lo sviluppo accelerato di NZEB eliminerebbe quasi del tutto l’utilizzo del gasolio per riscaldamento, con una politica energetico-climatica preveggente nel 2050 la domanda energetica sarebbe in larghissima misura soddisfatta da FER, con la quota complementare, in particolare nel trasporto marittimo, coperta quasi per intero da gas naturale.

Per valutare il grado di consenso che questa politica potrebbe acquisire, va esaminata la sua congruenza con gli orientamenti dei grandi gruppi finanziari e industriali interessati al settore energetico.

Dove soffia il vento

In vista della COP 21 di Parigi, alle prese di posizione dei capi di Stato o di Governo del G7, alle intese fra i Governi americano e cinese, alle indicazioni dell’OCSE, della FAO, della IEA, si sono aggiunti gli impegni assunti, con una lettera all’ONU, da 43 CEO di grandi imprese internazionali, i quali chiedono al summit parigino di introdurre politiche climatiche che, per essere efficaci – cioè in grado di mantenere entro 2 °C la crescita della temperatura globale – devono includere «explicit or implicit prices on carbon». Si tratta di gruppi attivi in 20 diversi settori e in più di 150 Paesi, con un fatturato complessivo, nel 2014, di oltre 1.200 miliardi di dollari. Dettaglio non di poco conto, fra i firmatari vi sono i CEO di Enel, Iberdrola, Engie, che operano in settori a elevata emissione di carbonio.

Impegni altrettanto cogenti sono stati presi con un’analoga lettera al ministro degli esteri francese, Fabius, presidente della COP 21, dai CEO delle principali compagnie europee oil&gas: BG, BP, Eni, Shell, Statoil, Total (quelle americane non hanno firmato). Il tenore della lettera non lascia adito a dubbi, ma se qualcuno ne avesse, si legga l’interpretazione autentica data dall’AD di Eni in un articolo su L’Osservatore Romano dell’11 giugno, dove afferma che le società firmatarie della lettera intendono «porre le basi per un futuro dove siano il gas e le rinnovabili ad avere il ruolo trainante». In altri termini, non solo marginalizzazione del carbone, ma anche minore utilizzo del petrolio: una prospettiva congruente con lo scenario delineato nei paragrafi precedenti e condivisa anche da una parte del mondo finanziario.

Nell’aprile scorso con il 98% dei voti l’assemblea degli azionisti di BP ha votato una risoluzione, promossa da soci di rilievo (tra cui la Chiesa anglicana, il fondo sovrano norvegese, il colosso assicurativo e finanziario francese Axa), che dal 2016 impegnerà la società a rendere conto di come sta riducendo le emissioni di CO2 e di come i suoi investimenti possono risentire di normative ambientali più rigide. Da settembre 2014 il Rockfeller Brother Fund, posseduto dagli eredi del fondatore della Standard Oil, ha eliminato gli investimenti nel carbone e nelle sabbie bituminose, prevedendo di ridurre anche quelli nel settore petrolifero.

Se per il petrolio siamo alle prime avvisaglie, per il carbone le trombe di Armageddon sono già suonate. La fila delle istituzioni finanziarie che hanno modificato il loro orientamento – dato che, per le stesse ragioni, considerano rischiosi gli investimenti nel carbone – continua ad allungarsi. Dopo la Banca Mondiale, che ha deciso di finanziare centrali a carbone solo in «rare circostanze», anche la BEI ha adottato condizioni più stringenti.

All’assemblea 2015 dei soci, la Bank of America ha ribadito la decisione «to continue to reduce our credit exposure, over time, to the coal mining sector globally». Hanno addirittura sospeso i finanziamenti al settore JP Morgan, Wells Fargo, la Banca PNC di Pittsburgh e il Crédit Agricole. Il CEO di Axa ha annunciato la decisione di «disinvestire dalle società più esposte alle attività nel carbone». L’accordo bipartisan raggiunto dal Parlamento norvegese impone al fondo sovrano del Paese – il più grande al mondo con 900 miliardi di dollari di investimenti – di cedere le partecipazioni in società con oltre il 30% della loro produzione o dei ricavi provenienti da attività in miniere di carbone o in centrali elettriche a carbone.

Più di 5,5 miliardi di dollari di dismissioni in aziende come la tedesca RWE, la cinese Shenhua, l’americana Duke Energy, l’australiana AGL Energy e la polacca PGE. Per contro, nonostante la caduta dei prezzi del petrolio, dopo due anni difficili tornano a crescere gli investimenti nelle energie rinnovabili, grazie soprattutto a Cina e Giappone: un incremento del 17% sul 2013, per un totale di 270 miliardi di dollari e 103 GW di nuova potenza installata, che esclude l’idroelettrico sopra 50 MW (grafico di seguito).

L’unico a non essersene accorto sembra il Governo italiano che, sordo anche all’enciclica “Laudato si’”, sostiene la ricerca e produzione di idrocarburi e conduce una guerra a bassa intensità, ma continuativa, contro lo sviluppo delle FER.

L’articolo di G.B. Zorzoli è stato pubblicato sul n.4/2015 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo ‘Allergici alla politica’.

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