Regno Unito: la dubbia sostenibilità di una centrale a carbone convertita a legna

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Un progetto di produzione energetica molto discutibile e al tempo stesso innovativo: la riconversione della centrale a carbone di Drax, la più grande del Regno Unito, che fornisce il 7% dell’energia del paese. Verrà alimentata a biomassa, ma per la quasi totalità proveniente dall'America dal Nord, e si prevede che l'impianto sia riprogettato per la cattura e il confinamento della CO2.

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È il progetto che indica una delle strade per salvarci dal disastro climatico? O solo un imbroglio che peggiorerà ulteriormente lo stato dell’ambiente planetario?

Raramente un progetto di produzione energetica ha suscitato interpretazioni così opposte, ma in effetti è vero anche che raramente un progetto è stato così radicale e innovativo come questo riguardante la riconversione della centrale a carbone di Drax, la più grande del Regno Unito (foto in alto), che oggi fornisce il 7% dell’energia del paese, in una a biomassa con cattura e confinamento della CO2.

L’idea venuta in mente alla società Drax Group, che gestisce questa centrale-mostro da 4 GW, in grado di ingoiare quasi 13 milioni di tonnellate di carbone l’anno, è quella di sostituire una parte via via crescente di antracite e coke, con biocombustibili in piccola parte costituiti da paglia locale, ma soprattutto da pellet di legna, fabbricati con segatura canadese e legname da foreste del sud degli Usa. A queste fonti, in seguito, si dovrebbe aggiungere altro biocombustibile proveniente dal Brasile, la cui natura non è stata ancora precisata.

Da luglio circa la metà dell’elettricità prodotta a Drax viene da biocombustibili, ma a regime, 7 milioni di tonnellate di pellet (per capirci, tutta l’Italia ne consuma 2,2 milioni di tonnellate) dovrebbero sostituire completamente la generazione a carbone.

Fin qui nulla di particolarmente straordinario, se non la taglia dell’impresa, che richiederà una complessa logistica sulle due sponde dell’Atlantico, per assicurare un flusso continuo di biocombustibile verso l’Inghilterra.

Ma il tocco veramente innovativo è un altro: spendendo 600 milioni di euro, di cui 300 milioni da parte dell’Unione Europea, la Drax Group conta di creare un impianto per la separazione della CO2 proveniente dalle caldaie dove viene bruciata la biomassa e pompare, attraverso un tubo lungo 160 km, il gas serra in un acquifero salino posto sotto il fondale del Mare del Nord, dove, si spera, resterà per sempre.

Visto che la CO2 pompata sarà quella estratta dall’aria dalla fotosintesi degli alberi e immagazzinata nel legno come cellulosa e lignina, il risultato netto di questo piano sarà quello di sottrarre CO2 all’atmosfera, facendone diminuire la concentrazione al ritmo, a pieno regime, nel 2020, di 2 milioni di tonnellate l’anno.

In questo modo Drax Group conta non solo di smettere di pagare per le emissioni di carbonio fossile nel sistema Ets (oltre, magari, a una futura carbon tax), ma, al contrario di intercettare incentivi per l’energia rinnovabile e di poter vendere crediti per le quote negative di carbonio prodotte.

In sintesi, mentre la cattura della CO2 (o CCS) applicata ai combustibili fossili evita (ammesso funzioni) di aggiungerne ancora gas serra in aria, il CCS applicato alle biomasse dovrebbe farci tornare indietro sulla strada del cambiamento climatico e potrebbe quindi essere parte della soluzione per evitare di superare i 2 °C di aumento.

Ma il piano della Drax è stato accolto da un mare di critiche. Il punto dolente è ovviamente il taglio delle foreste nel Sud degli Usa e l’energia (fossile) necessaria a trattare e trasportare tutta quella legna verso l’Inghilterra.

Secondo la Drax, tutto il processo di trasporto e preparazione del combustibile dalle foreste americane alle caldaie in Inghilterra, richiederà circa il 14% dell’energia prodotta bruciando i pellet, una quantità quindi accettabile.

Ma Timothy Searchinger, analista ambientale della Princeton University, dice che le cose non sono così semplici: l’assorbimento di CO2 da parte dei nuovi alberi richiederà decenni per compensare quella rilasciata in aria prima dell’implementazione del CCS, il che si tradurrà in un aumento di CO2 atmosferica e quindi in più riscaldamento globale. E il riassorbimento della CO2 non avverrà mai se quei terreni, una volta disboscati, al ritmo di circa 50-100.000 ettari per milione di tonnellate di pellet, venissero adibiti ad altri usi e non ripiantati con alberi. Per esempio, una loro totale riconversione in campi di cotone, produrrebbe, secondo Searchinger, emissioni di CO2 triple, rispetto a quelle che Drax produrrebbe bruciando carbone

Tutto questo non avverrebbe se la centrale usasse culture a crescita rapida da piantagioni dedicate, come pioppi, salici, canne o paglia, oppure se si limitasse ad usare solo la quantità di legna che i boschi riescono ad aggiungere anno per anno.

Ma le foreste scelte dalla Drax sono quelle di pini americani del Mississipi e della Louisiana, che non vengono tagliate a rotazione pluridecennale, lasciando parte degli alberi per la rinascita, come si fa in Italia, ma a raso, spianando tutto, settore dopo settore (come nella foto).

Una pratica che, oltre a non consentire un bilanciamento fra CO2 emessa ed assorbita, apre la strada a cambio di uso delle aree e provoca notevoli danni all’ambiente e alle specie che in quei boschi vivono.

La Drax, però, controbatte che in realtà quei boschi sono comunque destinati ad essere tagliati, visto che vengono usati da decenni per la produzione di legname da costruzione e che per il pellet vengono solo usati i rami, gli scarti di segheria e gli alberi inadatti alla costruzione di assi e travi.

Dale Greene, professore di scienze forestali alla University of Georgia, è d’accordo «L’estensione delle del Mississipi è cresciuta di 400.000 ettari in questi ultimi decenni, proprio per l’abbandono dei campi di cotone, e se imprese come queste della Drax danno un valore alla legna di queste foreste, è nel nostro interesse continuare a ripiantarne sempre di più».

Però una cosa sono le foreste originarie, con tutta la loro varietà di specie vegetali e animali che trova il suo equilibrio in secoli di coabitazione, un’altra le piantagioni di monoculture forestali, ogni pochi decenni tagliate a raso. È un innegabile impoverimento di biodiversità.

Un problema che diventerà ancora più delicato quando il legno per Drax arriverà non più da aree temperate, ma tropicali, come il Brasile: al confronto delle foreste tropicali, con le loro decine di specie di alberi e migliaia di animali per ettaro, le piantagioni forestali sembrano dei deserti inanimati.

Per capire la sostenibilità della riconversione della centrale di Drax, bisognerà quindi prima valutare quanta e che tipo di biomassa proverrà dal paese sudamericano.

Ma anche se la Drax Group riuscisse alla fine a contenere i danni ambientali, utilizzando biomassa di scarto di foreste o piantagioni comunque destinate al taglio, viene da chiedersi quanto sia sostenibile una moltiplicazione di progetti di questo tipo “per salvare il clima”.

Anche sorvolando sul fatto che non è chiaro ancora se il CCS sia economicamente sostenibile e se sia in grado veramente di sequestrare per sempre la CO2, visto quanto accaduto, per esempio con l’olio di palma, pare grave il rischio che un’espansione dell’uso delle biomasse per alimentare enormi centrali elettriche, finisca per indurre il taglio di foreste native, magari in Russia, Africa o Asia, provocando enormi danni ambientali.

Forse sarebbe meglio limitare l’uso delle biomasse forestali per la produzione elettrica a progetti di piccole o medie dimensioni, così che possano limitarsi a sfruttare risorse locali in modo sostenibile, riuscendo anche ad utilizzare il calore prodotto.

Lasciando invece il sequestro della CO2 a pratiche più sicure, come il rimboschimento, e il gigantismo produttivo a fonti che non producano per niente gas serra (né altri fumi inquinanti), così da non dover essere poi costretti a seppellirli da qualche parte.

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