Le celle solari di ‘plastica’ stampate in Italia

Celle fotovoltaiche che al posto del silicio usano strati sottilissimi di due tipi di polimero organico. Individuata una nicchia di mercato dove la tecnologia offre già diversi vantaggi e può essere competitiva. Una startup italiana tenterà di lanciare sul mercato questa tecnologia con le sue notevoli potenzialità future.

ADV
image_pdfimage_print

Com’è noto il solare fotovoltaico non è nato per produrre energia per la rete, le abitazioni o le industrie: il suo sviluppo si deve negli anni ’60 all’industria spaziale, quando si cominciò ad usarlo per dare energia a satelliti e sonde spaziali.

Anche se quei primi pannelli solari, costruiti come pezzi unici, erano costosissimi, la messa a punto delle tecniche per realizzarli creò in pochi decenni una piccola industria del solare, diretta a soddisfare le esigenze energetiche di nicchie di mercato più terra-terra, come l’alimentazione di boe, strumentazioni,  luci, antenne o abitazioni isolate dalla rete elettrica.

Solo la recente esplosione dell’industria del fotovoltaico su grande scala, ha infine fatto crollare i prezzi dei pannelli al silicio, permettendo il loro uso di massa. In Italia, adesso, c’è chi sta tentando di riprodurre, in tempi più brevi, la “Lunga Marcia” del solare, rilanciando una tecnologia che già da molti anni promette di rivoluzionare la produzione di energia dalla luce, ma che, di fatto, non è mai decollata: il fotovoltaico a polimeri organici.

«In questa tecnologia – ci spiega  Marco Carvelli, ingegnere fisico del Center for Nano Science and Technology di Milano, facente parte dell’Istituto Italiano di Tecnologia – al posto del silicio, come elemento fotosensibile, ci sono strati sottilissimi di due tipi di polimero organico, uno che rilascia elettroni quando esposto alla luce, e uno che li assorbe. Creando un circuito esterno fra i due, si riesce a produrre elettricità fotovoltaica, senza ricorrere a elementi inorganici, che possono richiedere molta energia per essere fabbricati oppure sono rari o tossici».

Carvelli, con un gruppo di colleghi, ha creato una startup, la Ribes Technologies, che tenterà di lanciare sul mercato questa tecnologia e le sue enormi potenzialità.

«Il vantaggio del solare a polimeri – dice Carvelli – è che le celle sono essenzialmente fatte di plastica. Tutti i loro componenti si presentano, infatti, in forma liquida, e possono essere letteralmente stampati, un sottilissimo strato sopra l’altro, su un supporto di plastica, con macchine simili alle rotative convenzionali e a temperatura ambiente. Il costo teorico di queste celle è quindi bassissimo: basti pensare che lo spessore totale di un foglio di solare a polimeri è di 100 micron, millesimi di millimetro, ma di questi solo un micron è costituito dai vari strati attivi, il resto è supporto inerte».

Con spessori così ridotti il prodotto della Ribes si presenta in pratica come una pellicola flessibile, tipo quella per avvolgere gli alimenti, che si può tagliare nelle dimensioni desiderate e attaccare ovunque.

Pensate quindi di coprire palazzi e strade e fare la nuova rivoluzione energetica? «Ecco, questo è proprio quello che non vogliamo fare: il passo più lungo della gamba. L’errore che, crediamo, finora ha impedito a questa tecnologia di uscire dai laboratori è stato proprio quello di vederla in competizione con i moduli al silicio per la produzione massiva di elettricità Ma il fotovoltaico a polimeri ha i suoi difetti e per ora questa competizione non la può affrontare. Prima di tutto la sua efficienza è molto bassa, minore del 10%, secondariamente non è stato ancora risolto il problema della durata, che è di alcuni anni, non decenni come per il silicio. Infine, anche l’economicità di questa tecnologia si raggiungerà solo con grandi produzioni industriali. Per adesso non può competere con il silicio o lo strato sottile neanche su quello».

E allora che si fa? «E allora noi abbiamo individuato una nicchia di mercato dove questa tecnologia offre vantaggi tali da essere già competitiva e dove si potrà fare le ossa: l’alimentazione di oggetti per la domotica o di sensori da installare in grandi quantità nell’ambiente. Pensate per esempio a un supermercato che voglia mettere negli scaffali centinaia di etichette intelligenti che riconoscano i clienti e spieghino le caratteristiche dei prodotti e le offerte speciali; sarebbe un incubo di cavi di collegamento o di batterie da sostituire. Ma se ognuna di quelle etichette avesse la sua piccola cella a polimeri, leggera ed economicissima, che, convertendo la luce ambiente, carica un piccolo accumulatore posto nell’etichetta elettronica, ecco che tutto diventa molto più facile».

E aggiunge, «la stessa cosa può valere per sensori da usare negli edifici, termostati, rivelatori di presenza, allarmi, che devono conversare fra loro via bluetooth, senza essere collegati alla spina. Si può immaginare di usare celle a polimeri persino sugli abiti, per alimentare sensori sportivi e medici o dispositivi per le comunicazioni».

Quindi le vostre celle sono pensate per funzionare essenzialmente al chiuso. «Esatto: alla luce artificiale, che manca di molte delle lunghezze d’onda di quella solare, le nostre celle raggiungono una efficienza del 2%, che è solo di poco inferiore a quella del silicio nelle stesse condizioni, cioè il 3%, ma con il vantaggio di essere molto più facili da installare, per la loro flessibilità e leggerezza. Inoltre la luce artificiale, mancando della componente UV, è meno distruttiva di quella solare sui polimeri, allungandone la vita».

E a che punto siete con lo sviluppo e la proposta di questi prodotti? «Abbiamo messo a punto i vari componenti, pensando anche a come sostituire quelli più rari e costosi, preparandoli in forma liquida utilizzabile nelle normali rotative. Adesso stiamo lavorando con la Omet di Lecco sull’adattamento delle macchine da stampa agli standard di altissima precisione nella continuità e spessore degli strati, necessari a produrre celle di alta e omogenea qualità su vaste superfici. Intanto abbiamo preso accordi con varie società che creano oggetti e sensori per la domotica, per testare celle adattate alle loro esigenze specifiche. L’interesse è molto e se tutto andrà come speriamo, entro 18 mesi dovremmo cominciare a produrre i primi esemplari di celle polimeriche per il mercato».

Allora niente rivoluzione energetica solare a polimeri, solo piccoli prodotti di nicchia? «Niente affatto, questa tecnologia aveva prima di tutto un disperato bisogno di trovare una applicazione di qualità per poter entrare nella fase industriale. Cominciare a produrre industrialmente ci darà i mezzi e le motivazioni per perfezionare le celle e per abbassarne i costi. Per l’uso esterno, per esempio, occorrerà risolvere assolutamente il problema del veloce degrado dei polimeri, forse aggiungendo additivi agli inchiostri, per fargli assorbire l’ossigeno intrappolato negli strati e filtrare i distruttivi ultravioletti, o forse individuando polimeri del tutto nuovi, più adatti a questo scopo. Solo allora le celle solari polimeriche, potranno ragionevolmente cominciare ad occupare nicchie esterne, sempre più vaste, coprendo, per esempio, la carrozzeria dei mezzi elettrici e contribuendo così ad aumentarne l’autonomia, o interi palazzi, trasformandoli in centrali elettriche. Però, il tutto dovrà passare prima dalle nostre piccole celle per sensori».

Ma aggiungere le innovazioni necessarie all’uso esterno, non farà aumentare il costo della tecnologia, rendendola di nuovo non competitiva con il silicio? «No, il bello del solare a polimeri è che ogni cambiamento che faremo alla composizione dei vari strati porterà alla fine sempre ad “inchiostri” liquidi da spalmare a temperatura ambiente, in strati nanometrici, su fogli di plastica, con comuni macchine da stampa, quindi in prodotti sempre molto più economici di quelli ottenuti con grande uso di energia e lavoro, come il silicio, il vetro e l’alluminio che compongono gli attuali pannelli solari».

ADV
×