Earth Day 2015 per rilanciare anche in Italia la campagna ‘Divest Fossil Fuel’

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Diversi segnali mostrano come il mondo dell'energia stia cambiando rapidamente, ma per disinnescare il rischio della bolla del carbonio ed accelerare la transizione è fondamentale disinvestire dalle azioni di società che operano nel settore delle fossili a favore dell’impegno nell’efficienza e nelle rinnovabili. L'editoriale di Gianni Silvestrini.

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Il 22 aprile, a 45 anni di distanza dalla prima edizione cui ho avuto la fortuna di partecipare a New York, oltre un miliardo di persone in tutto il mondo saranno coinvolte nell’Earth Day. Allora i temi dominanti erano quelli dell’inquinamento dell’aria e delle acque, temi tipicamente locali. Oggi siamo di fronte a sfide molto più ampie.

La popolazione è aumentata di tre miliardi e mezzo di abitanti, l’uso dei minerali è più che raddoppiato. L’assalto alle risorse rischia di aggravarsi nei prossimi 10-15 anni. Un arco temporale che sarà peraltro decisivo per avviare politiche in grado di evitare esiti catastrofici della crisi climatica. E la Giornata della Terra del 2015 acquisisce un valore particolare, considerato che questo potrebbe essere l’anno della svolta nella lotta al riscaldamento globale.

In realtà alcuni segnali indicano interessanti cambiamenti già in atto. Nel 2014 le emissioni globali di anidride carbonica non sono cresciute. Inoltre, la potenza elettrica da fonti rinnovabili installata negli ultimi due anni ha superato quella da combustibili fossili. Queste evoluzioni in corso sono affrontate nel libro “2 °C”, analizzando gli interessi e gli attori che frenano il cambiamento e le forze su cui puntare per agevolare la transizione verso un’economia circolare e per un drastico taglio delle emissioni climalteranti. Aggiorniamo quindi le possibili dinamiche delle società dominanti nel settore energetico e dei trasporti.

Il settore elettrico vive una traumatica transizione, con centrali che chiudono e milioni di impianti realizzati da nuovi soggetti. Le grandi utility europee hanno perso metà del loro valore dal 2008 (500 miliardi €). Il cambiamento del modello di business è dunque una necessità, pena la loro scomparsa.

Enel e E.On in Europa, NRG e Smud negli Usa intendono reinventarsi puntando su rinnovabili, efficienza e nuovi servizi per i clienti. Secondo le stime di McKinsey, solo in presenza di strategie innovative le grandi compagnie europee potranno recuperare il loro valore pre crisi nel 2020.

Ma certamente si allargherà il numero di prosumers, i produttori-consumatori, e compariranno nuovi soggetti per gestire i Virtual Power Plants, l’aggregazioni di migliaia di impianti e di accumuli.

Passando al settore dei trasporti troviamo delle analogie, ma anche delle differenze rispetto a quello elettrico. La domanda di mobilità in diversi paesi tende a rallentare, analogamente a quanto avviene per i consumi di elettricità. Il basso prezzo della benzina sul breve periodo farà rimbalzare le vendite di auto, ma non altererà la tendenza di fondo caratterizzata dall’emergere di forme alternative di mobilità, dal car sharing a Uber, e da un diverso e più disincantato modo di rapportarsi con l’auto.

Le multinazionali del settore non vedranno insidiato il loro ruolo solo sul fronte del volume delle vendite, ma anche su quello della produzione di auto. La minaccia però non verrà da una miriade di competitori, come è successo con i produttori di elettricità verde, ma da forti outsider che stanno puntando sull’abbinata vincente ‘connettività + trazione elettrica’. Tesla, Google, Apple, Virgin, Sony, Uber, BYD inseguono progetti innovativi di veicoli senza guidatore. I prossimi anni diranno se le grandi dell’auto sapranno reinventarsi in maniera sufficientemente rapida per reggere l’onda dei nuovi entranti.

Per continuare con i parallelismi, è interessare ricordare l’evoluzione delle tecnologie solari, perché potrebbe anticipare le dinamiche future dell’auto elettrica. Il fotovoltaico era considerato fino a non molti anni fa una tecnologia estremamente costosa e marginale. Ora invece tutti riconoscono che svolgerà un ruolo centrale negli scenari energetici.

I veicoli elettrici sono ancora molto costosi, ma fino a quando? Il prezzo delle batterie sta rapidamente calando e non sarà lontano il momento in cui il costo complessivo di acquisto e gestione dei veicoli elettrici sarà inferiore a quello dei modelli convenzionali. E il decollo delle auto elettriche è già iniziato (vedi grafico). Vista la parallela crescita della produzione elettrica da rinnovabili, questa transizione diventerà strategica per il processo di decarbonizzazione.

E veniamo al comparto più importante e più a rischio, quello dei combustibili. La situazione delle multinazionali fossili è molto complessa, con problematiche crescenti per gas, petrolio e carbone.

Per quest’ultimo, la crisi è già in atto nei principali paesi consumatori come la Cina e gli Stati Uniti. Malgrado la IEA preveda una crescita della domanda nei prossimi anni, le dinamiche in atto sembrano smentire queste valutazioni. I consumi di carbone in Cina sono calati nel 2014 e quest’anno non è prevista una ripresa. Anzi, China Shenhua Energy, il principale produttore interno, prevede una riduzione del 10% delle sue vendite di carbone nel 2015. E negli Usa le cose vanno ancora peggio, con diverse società fallite. Molte altre, incluso il colosso Peabody Energy Corp., sono in caduta libera con un crollo dell’80% del loro valore negli ultimi tre anni. Basso prezzo del gas, crescita delle rinnovabili, normative ambientali più stringenti hanno innescato il calo della domanda del carbone statunitense.

Peraltro, le prospettive di questo combustibile sono quelle più a rischio nella prospettiva di un serio accordo climatico, che implicherebbe l’impossibilità di usare ampie quote delle riserve. Nello scenario “2 °C” i consumi mondiali di carbone dovrebbero ridursi del 30% già nel 2030 (vedi grafico).

Per quanto riguarda il petrolio è la minaccia di un picco della domanda a preoccupare i produttori. Un timore che ha contribuito alla decisione saudita di stabilizzare la propria produzione, innescando il crollo del prezzo del greggio. Una mossa che è stata decisa per ridurre la competizione di shale oil, gas, efficienza e fonti rinnovabili.

Il rischio di non potere utilizzare una quota delle proprie riserve, in presenza di limiti severi alle emissioni climalteranti, incombe peraltro anche per il petrolio e il metano. La settimana scorsa un folto gruppo di azionisti della BP ha richiesto informazioni specifiche sulle strategie della compagnia di fronte ai rischi climatici. La risposta dell’Amministratore nel suo intervento all’assemblea generale è stata vaga. Bob Dudley ha sottolineato che il 50% degli interessi della compagnia sono ormai centrati sul metano e ha accennato al ruolo della società nei biocarburanti. Ma tutta la relazione ha evidenziato i successi nella ricerca di nuovi giacimenti di petrolio e gas. Il riferimento al clima è sembrato un atto dovuto, con il retro-pensiero “per favore … non disturbate il manovratore”.

Il fatto è che, mentre le utility e i grandi produttori automobilistici potrebbero cambiare modello di business all’interno del proprio settore riducendo l’impatto sul clima, per le multinazionali fossili l’unica alternativa per evitare la “carbon bubble” è quella di diversificare in maniera drastica le proprie attività, per esempio decidendo di investire seriamente nelle rinnovabili. O sperare che il sequestro della CO2 possa avere successo. Un’uscita di sicurezza sempre più complicata considerando le difficoltà che stanno incontrando le varie sperimentazioni.

Per favorire la transizione crediamo che anche in Italia si debba estendere il movimento “Divest fossil fuel”. Questa campagna, pensata per stimolare il disinvestimento dalle azioni di società in prima fila nel comparto dei fossili a favore dell’impegno nell’efficienza e nelle rinnovabili, e nata nelle università statunitensi, ha ottenuto supporti prestigiosi, dall’arcivescovo sudafricano premio Nobel per la pace Desmond Tutu al Consiglio mondiale delle chiese cristiane. Recentemente si è associato alla campagna l’autorevole giornale inglese The Guardian. Pensiamo che l’Earth Day 2015 possa rappresentare una buona occasione per rilanciare questa iniziativa anche nel nostro paese.

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