La memoria corta dopo soli 5 anni dal disastro della Deepwater Horizon

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Il 20 aprile del 2010 esplodeva nel Golfo del Messico la piattaforma petrolifera della BP. Per 106 giorni furono sversate in acqua oltre 500mila tonnellate di petrolio. Pochi giorni fa l'incidente sulla piattaforma della compagnia messicana Pemex. E oggi per Italia e Croazia trivellare nei nostri mari è ancora un simbolo di progresso.

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Il 20 aprile di cinque anni fa esplodeva nel Golfo del Messico la piattaforma petrolifera DeepWater Horizon della BP, uccidendo di 11 persone. La marea nera invadeva le coste della Florida e di altri Stati, come Louisiana, Mississippi, Alabama. Lo sversamento durò per 106 giorni. Furono sversate in acqua oltre 500mila tonnellate di petrolio (3,2 milioni di barili, ma per altri sarebbero 4,9 milioni) con danni incalcolabili e durevoli nel tempo. Gran parte di questa quantità di petrolio si depositò sui fondali, e negli anni ha continuato ad avvelenare l’intero ecosistema marino. Una ricerca dell’Università della South Florida mostra le prove di malattie della fauna marina per l’ingestione di petrolio.

Si tratta del più grave disastro ambientale negli Usa, probabilmente 10 volte superiore a quello della petroliera Exxon Valdez nel 1989.

Greenpeace ha ricordato che agli inizi di aprile 2010, il presidente Obama aveva riavviato, dopo una lunga moratoria, il programma di esplorazioni petrolifere offshore statunitense che secondo l’associazione ambientalista era “un pedaggio pagato alle lobby del barile per far passare un ‘Climate Bill’ che impegnava gli Usa a ridurre, peraltro solo del 4% le emissioni di gas serra rispetto al 1990”. ”Le piattaforme petrolifere, oggi, non causano sversamenti. Sono tecnologicamente molto avanzate”, disse Obama il 2 aprile 2010, a meno di tre settimane dal disastro. Mai affermazione fu clamorosamente smentita in così poco tempo.

Gli Stati colpiti hanno chiesto due anni fa un risarcimento di 34 miliardi di dollari, ma la cifra è contestata da BP perché sarebbe stata calcolata con metodi “gravemente viziati, non supportati dalla normativa” e che “sovrastimano in modo sostanziale le rivendicazioni degli Stati”. Al momento la Bp è stata condannata a pagare 4,5 miliardi di $ dopo la sentenza penale che gli addebita negligenza e dati falsati (la BP ha chiesto a sua volta alla Hulliburton, multinazionale texana, un risarcimento di 20 mld $, per avere distrutto le prove sul cemento utilizzato per costruire la piattaforma). Tutto ciò fa capire come in questi casi sia molto complesso l’accertamento della verità, oltre che l’esatta valutazione dei danni.

Pochi giorni fa, su scala molto più ridotta, un evento simile si è nuovamente verificato nel Golfo del Messico: un vasto incendio è scoppiato su una piattaforma petrolifera permanente della compagnia messicana Pemex, provocando quattro morti e sedici feriti. Greenpeace chiede che vengano accertati i danni ambientali, ma la Pemex non consente al momento il sorvolo dell’area e l’ispezione della piattaforma. Tuttavia le immagini satellitari mostrano chiazze di petrolio in prossimità del luogo dell’incidente.

Una nota di Greenpeace su questa triste ricorrenza della DeepWater Horizon coglie l’occasione per allargare la problematica dell’estrazione di idrocarburi in mare anche alla realtà del Mediteranneo. “C’è ancora, anche tra i nostri governanti, chi va in giro a dire che le estrazioni di petrolio in mare sono sicure e rappresentano solo una fonte di ricchezza, occupazione, progresso. Non bisogna credergli”, ha detto Alessandro Gianni, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia.

Come abbiamo più volte scritto anche su questo portale, con il decreto Sblocca Italia, il governo Renzi ha dato il via libera all’esplorazione e all’estrazione dei pochi idrocarburi presenti nei nostri mari. Contro la conversione in legge dello Sblocca Italia è stato inoltrato ricorso presso la Corte Costituzionale da parte di sette Regioni. La deregulation selvaggia che crea questa normativa, contraria a quella europea, rappresenta secondo Greenpeace, di altre associazioni ambientaliste e moltissimi comitati No-Triv, un forte rischio per le coste e i mari nazionali solo per accedere ad una risorsa scarsa, per giunta pagando royalties tra le più basse al mondo.

Tanto per dimensionare la quantità in gioco, ricordiamo che, per quanto riguarda il petrolio, le attuali riserve provate in Italia sia su terraferma che offshore corrisponderebbero al consumo nazionale di soli 3 anni (Qualenergia.it).

Si fa notare che nel Mediterraneo già oggi si riscontra la più alta concentrazione di idrocarburi al mondo (38 milligrammi per metro cubo) e si ha il 20% del traffico mondiale di idrocarburi, oltre 8 milioni di barili al giorno.

Un aspetto molto problematico riguarda l’approccio della Croazia che intende dare il via libera all’esplorazione di idrocarburi su circa il 90% delle sue acque nazionali. Sull’altra sponda si muove però anche l’Italia: nuovi progetti hanno ottenuto il via libera in Abruzzo, mentre in un’area sin qui interdetta alle trivelle, davanti alle coste del Veneto, si prevede il riavvio di programmi sperimentali in spregio alla subsidenza dei territori costieri e di Venezia, spiega Greenpeace.

L’associazione chiede al governo italiano “di sottoporre i suoi piani energetici a una seria Vas (Valutazione ambientale strategica), aperta agli stati confinanti, e di recepire presto la nuova direttiva europea sulle trivellazioni offshore”. Intanto oltre 120mila cittadini hanno aderito alla sua campagna #nonfossilizziamoci.

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