Come il fotovoltaico italiano sta mostrando la strada del cambiamento

Il fotovoltaico in Italia, con la fine degli incentivi, si è dovuto reinventare passando da tecnologia di produzione a servizio. Un mutamento paradigmatico della trasformazione in atto nel mondo dell'energia in generale. Ne parliamo con il professor Arturo Lorenzoni, che a Solarexpo, l'8 aprile a Milano, modererà il convegno di apertura sul FV in Italia.

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Dopo aver vissuto un boom impressionante del fotovoltaico fino al 2011, grazie al conto energia, il nostro è il primo mercato importante in cui il solare sta mostrando, non senza difficoltà, di potercela fare anche in grid-parity, cioè senza incentivi. Questo cambiamento ha imposto di considerare il FV come un servizio energetico tagliato su misura sul cliente e non più, come era al tempo degli incentivi, semplicemente come una tecnologia per produrre kWh. In questo il fotovoltaico è paradigmatico della trasformazione in atto nel mondo dell’energia in generale.

Ne parliamo con il professor Arturo Lorenzoni, che nella prima giornata di Solarexpo-The Innovation Cloud 2015, l’8 aprile a Milano, modererà il convegnoIl fotovoltaico in Italia, riportare il mercato a 1 GW l’anno (ore 14,30-18,30).

Professor Lorenzoni, il convegno nel quale farà da chairman parla di un mercato italiano del fotovoltaico da un GW. Pochi giorni fa IHS ha pubblicato le sue previsioni nelle quali si stima che l’Italia nei prossimi 5 anni installi 8 GW di nuova potenza, cioè in media 1,5 GW l’anno. Secondo lei ci sono le condizioni perché questo accada?

Premetto che 1,5 GW all’anno sono veramente molti, ma anche un 1 GW all’anno è un valore rilevante. Certo, le condizioni sono molto diverse rispetto a solo due anni fa: quello che sto verificando è che è cambiato il rapporto dei consumatori con il fotovoltaico. La tecnologia ormai è molto familiare e paradossalmente la gente guarda al solare con maggior fiducia rispetto ai tempi del conto energia. È una fase nuova in cui la convenienza economica non è più la principale o la sola molla che spinge la domanda.

La convenienza economica comunque resta.

Gli economics sono già molto interessanti in buona parte della Penisola. Nelle situazioni in cui si riesce ad autoconsumare una quota rilevante della produzione, installare il fotovoltaico è una scelta sensata.

E per quel che riguarda il quadro normativo?

C’è da percorre molta strada per adeguare la normativa ai cambiamenti in corso nel parco di generazione. Servono strumenti nuovi per disciplinare un nuovo rapporto tra generazione e domanda, non solo un adattamento degli attuali, quale può essere l’estensione del SEU a più soggetti, che pure sarebbe importante. Bisognerebbe ripensare l’architettura del sistema elettrico; e questo non solo in Italia, ma ovunque.

Molti, tra i quali l’Autorità per l’energia, guardano con preoccupazione all’aumento dell’autoconsumo, per l’impatto che questo avrebbe sulla distribuzione degli oneri di rete e di sistema, che ricadrebbero in misura sempre maggiore su chi non autoproduce. Un timore fondato?

Il timore ha una sua razionalità: al crescere dell’autoconsumo gli oneri ricadranno su una platea sempre minore. Per questo servono nuovi criteri di ripartizione. Ad esempio si parla di spostare gli oneri sulle componenti fisse della bolletta. Una riflessione va fatta, ma il timore citato non può essere affrontato semplicemente tagliando le gambe all’innovazione. Non sarebbe la soluzione ottimale.

Prevede che il calo dei costi di produzione del fotovoltaico continui ai ritmi che abbiamo visto finora?

La riduzione dei costi ci potrà essere grazie a miglioramenti di tipo organizzativo nelle aziende e nella filiera in genere, ma credo che difficilmente ci saranno ancora cali significativi per quel che riguarda la componentistica.

Una tecnologia per la quale si prevedono forti diminuzioni dei prezzi è quella delle batterie. Pensa che lo storage potrà nei prossimi anni svolgere una funzione di catalizzatore per la domanda di fotovoltaico?

L’accumulo è uno degli esempi in cui le regole possono condizionare lo sviluppo di una tecnologia. Con i costi attuali in Italia lo storage a livello di utente domestico non è ancora attraente dal punto di vista economico, ma ci sono anche altre motivazioni che rendono questa soluzione attraente, tanto che molti consumatori la stanno valutando. Certo bisognerebbe chiedersi se l’accumulo distribuito sia la soluzione ottimale dal punto di vista del sistema, ma qui oltre che l’aspetto tecnico bisogna valutare anche quello socioeconomico.

Alcuni analisti con i quali abbiamo parlato di recente ci hanno mostrato come a livello economico i SEU con fotovoltaico siano già molto attraenti: si può tagliare la bolletta di un’azienda anche del 20%, avendo sull’impianto rendimenti paragonabili al quinto conto energia. Cosa servirebbe affinché la convenienza economica si traducesse in domanda effettiva?

Se venissero confermate alcune stime sull’installato 2014, che parlano di oltre 1 GW di nuova potenza non incentivata (vedi qui, ndr), si può dire che c’è già una domanda importante e dunque non servono particolati acceleratori. Detto questo, un catalizzatore ad esempio potrebbe essere l’integrazione con strumenti di gestione della domanda. Questi potrebbero da una parte aiutare i distributori nella gestione delle reti, dall’altra aiutare i consumatori a rendere il più vantaggioso possibile il proprio profilo di prelievo. Bisogna innovare la relazione contrattuale con il cliente finale: dargli la possibilità di investire nell’autoproduzione e nell’accumulo, ma anche di essere un soggetto attivo nella sua relazione con il distributore.

Suona molto come un lavoro da utility. Saranno queste ad avere un ruolo da protagoniste nel futuro della generazione distribuita?

Sì, le utility devono cambiare radicalmente in questo senso la loro relazione con gli utenti; diversamente il loro ruolo rischia di perdere di significato.

Lo stanno facendo?

Ovviamente ci sono delle resistenze: se uno ha sempre fatto un dato lavoro vorrà continuare a farlo il più a lungo possibile. I primi segnali di cambiamento però ci sono: Enel ad esempio nel corso del 2014 ha rivisto radicalmente la sua strategia. Ora ha un gruppo che si occupa di cogenerazione che sta veramente girando l’Italia in cerca di relazioni contrattuali nuove con le piccole e medie imprese. È il segno che Enel si è resa conto che ha un margine maggiore fornendo un servizio al cliente finale che limitandosi a vendere kWh.

Cosa serve ad un’azienda per affrontare questo cambiamento?

L’asset che serve è soprattutto immateriale: la capacità di innovare. Le opzioni tecnologiche sono moltissime: pompe di calore abbinate al fotovoltaico, tecnologie per la gestione della domanda, eccetera. Serve la capacità di trasformare il business spostando il focus dalla produzione e vendita di energia alla fornitura di un servizio, che poi potrà essere garantito al cliente con le soluzioni più convenienti.

Soluzioni come il fotovoltaico in autoconsumo contribuiscono anche a ridurre la domanda e sul mercato elettrico fanno concorrenza agli impianti tradizionali. Questo potrebbe frenare le utility dall’investirvi con decisione?

La domanda elettrica è cambiata a livello strutturale: anche se ci fosse una ripresa economica, non tornerebbe a crescere come prima. In questo il fotovoltaico è solo un fattore marginale: i consumi crescono molto meno anche dove non c’è il fotovoltaico. La trasformazione del business verso la fornitura di un servizio è inevitabile: come in altri campi, anche nel mondo dell’energia vedremo una maggiore penetrazione dell’ICT che permetterà di fornire servizi in tempo reale.

Il passaggio dal modello centralizzato alla generazione distribuita cambierà anche l’impatto del settore energetico sul resto dell’economia. Nel “vecchio” modello abbiamo poche grandi aziende che gestiscono impianti dai costi enormi, alimentati da materie prime di importazione; nel “nuovo” entrano in gioco molti più soggetti e tecnologie, spesso prodotte o installate da piccole ditte locali. Il tessuto produttivo italiano è pronto ad approfittare di questa opportunità?

Sì, ci sono imprese che sono pronte a rispondere. È un modello di business molto più vicino a quello che è il tessuto industriale italiano, basato sulla piccola e media impresa. Gente che si sta attrezzando ce n’è: si sta guardando con interesse all’evoluzione del settore energetico dal versante utility, da quello delle varie tecnologie, da quello dell’ICT, dal mondo delle cooperative. In generale oggi le barriere all’ingresso sono molto più basse che in passato.

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