Sogin, i giornalisti e quella controproducente “formazione nucleare”

CATEGORIE:

Si è svolto a Roma un corso di formazione per i giornalisti, autorizzato dall'Ordine, realizzato da Sogin sul nuovo deposito delle scorie nucleari, la cui localizzazione dovrà essere decisa nei prossimi mesi. Ma, tra omissioni, ridondanza di informazioni 'teoricamente positive', quasi a sfiorare il marketing e ipotesi facilmente smentibili, ne esce un pessimo esempio di comunicazione.

ADV
image_pdfimage_print

Il nucleare è una patata bollente. Sempre, anche quando si vorrebbe chiuderlo. E la cosa riguarda anche e specialmente il deposito italiano definitivo per i rifiuti nucleari di bassa e media attività che Sogin si ritroverà a gestire per i prossimi decenni. La riprova di ciò si è avuta ieri mattina Roma in un evento “ibrido” a cavallo tra la conferenza stampa la formazione permanente per i giornalisti, del resto regolarmente autorizzato dall’Ordine dei Giornalisti, messo in piedi da Sogin.

L’incontro aveva come titolo “Corso d’aggiornamento professionale Ordine dei Giornalisti. Verso il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi: problema o opportunità?” e ha rafforzato i nostri dubbi sull’informazione energetica in Italia, visto che si è trattata di una comunicazione (o formazione) su una specifica attività aziendale e non su un segmento dell’attività media e stampa, come per esempio, una più generale “informazione sull’energia nucleare”.

E la differenza si è vista subito. L’incontro, infatti, è iniziato con la descrizione della campagna web di Sogin sull’argomento e il filmato utilizzato dall’azienda nella difficile opera di comunicazione del deposito. «Si tratta di una strana occasione perché di solito non si fa un’esposizione ai giornalisti, ma si viene incalzati dagli stessi», ha detto iniziando la sua presentazione Emanuele Fontani, Amministratore Delegato di Nucleco, società del Gruppo Sogin. Il quale ha proseguito in un’esposizione sulla normalità delle radiazioni, citando oggetti d’uso comune lievemente radioattivi, quali il rivelatore di fumo o il parafulmine che ionizza l’aria attraverso delle piccole sorgenti d’americio, ponendo l’accento su tutto ciò che è naturalmente radioattivo e affermando che la radioattività, al contrario di altre fonti d’inquinamento può essere, una volta accertata, confinata. Cosa rassicurante e vera, in linea di massima, ma che diventa opinabile nel caso di incidenti nucleari nelle centrali atomiche o nei centri di ricerca dove si manipolano materiali ad alta attività. Ossia quando la radioattività sfugge.

Discorso analogo sulla rassicurazione circa il decadimento della radioattività del Cesio 137, esponendo il quale è stato citato, l’unica volta durante l’intera mattinata, l’incidente di Chernobyl che lo ha distribuito in tutta Europa. La tesi di fondo è stata quella che, avendo il Cesio 137, un’emivita (ossia un periodo di dimezzamento dell’emissione radioattiva) di 30,17 anni, se confinato non è pericoloso sul lungo periodo. Si tratta di una tesi più che ragionevole che però ha un paio di difetti. Il primo è che non si può prendere una singola sostanza per determinare la pericolosità generale delle scorie radioattive, mentre la seconda è che induce in una sorta di rassicurazione sul fatto che il tempo metta in sicurezza di per se stesso le scorie nucleari. Così come appare rassicurante il fatto di evidenziare, con parecchia enfasi, che la radioattività sulla maggior parte dei componenti degli impianti si concentra su una superficie spessa pochi micron, oppure che la radioattività deriva anche da processi industriali e sanitari.

Si è taciuto invece delle difficoltà tecniche dello smantellamento del reattore gas-grafite di Borgo Sabotino, nel quale ci sono oltre 2.000 tonnellate di grafite ad alta radioattività che dovranno attendere, con ogni probabilità, la creazione del deposito geologico definitivo e non quello di cui si parla, mentre qualche tempo fa ciò è emerso da un documento ufficiale del Governo britannico, pubblicato su La Nuova Ecologia. Non si è ricordato nemmeno che le operazioni di smantellamento degli undici reattori gas-grafite inglesi saranno terminate nel 2115 – tra cento anni, avete letto bene – perchè le autorità britanniche attenderanno la diminuzione naturale della radioattività per mettere mano alla parte centrale del reattore. E a proposito dei depositi geologici per le scorie ad alta attività l’accenno è stato breve e solo all’esperienza francese, mentre nulla si è detto sul fallimentare sito di Yucca Mountain negli Usa, costato 7,7 miliardi di dollari, 20 anni di lavoro e abbandonato per inadeguatezza geologica o sul deposito finlandese di Onkalo che è “progettato” per resistere fino alla veneranda età di 100mila anni, quando le Piramidi d’Egitto ne hanno solo 4.500.

Successivamente è stata la volta di Roberto Moccaldi. presidente di AIRM (Associazione Italiana di Radioprotezione Medica) che ha parlato del concetto probabilistico del danno, ribadendo, cosa corretta, che non c’è danno automatico se non si supera un certo livello di radiazioni, sottolineando che al di sotto di una certa soglia epidemiologica non ci sono dati efficaci, sfiorando quindi il principio di precauzione in questo caso – che non è mai stato citato – ma mettendo immediatamente l’accento sul fatto che in alcuni casi, come quello degli screening mammografici, il rapporto benefici rischi delle radiazioni, impiegate per l’esame, è altamente positivo.

I dettagli del nuovo deposito sono arrivati da Fabio Chiaravalli, il direttore del deposito nucleare e parco tecnologico Sogin che ha iniziato dicendo: «nel deposito saranno allocati i rifiuti nucleari a bassa e media intensità attendendo che passino 300 anni, che non è tanto, si tratta di un tempo umano, storico. Dopo di che il luogo potrà essere rilasciato e non sarà più considerato un luogo radioattivo». Chiaravalli ha posto l’accento sul fatto che la situazione in Italia è molto più che precaria, visto che abbiamo le scorie nucleari divise in decine di siti spesso in condizioni precarie, ma nessun accenno è stato fatto agli incidenti della Casaccia del 2006, riguardanti il plutonio, che testimoniano il pessimo stato dei depositi provvisori e precari italiani.

«Sogin sta facendo un’intensa attività di comunicazione – ha ribadito Chiaravalli – con decine di eventi come questi e ne abbiamo in programma ancora molti». Il direttore ha continuato circa il fatto che anche se l’Italia è in ritardo rispetto agli obblighi europei – l’Unione Europea ci impone una decisione entro agosto 2015, pena una procedura d’infrazione – in realtà questo è un vantaggio perchè avremo un deposito più aggiornato sul fronte della radioprotezione. Sui dettagli tecnici del deposito si direbbe che tutto sia a posto. Gli ordini di sicurezza sono quattro e c’è un sistema in grado di raccogliere eventuali perdite di percolato radioattivo, anche se fino a oggi siano pochi, forse nessuno, ad avere sperimentato sistemi in grado di funzionare in maniera sistemica per 300 anni. E non è stato chiaro nemmeno l’accenno ai rifiuti ad alta intensità che dovrebbero essere stoccati in via provvisoria, all’interno di questo deposito in attesa di quello definitivo geologico.

Ma l’esposizione più interessante, sul fronte del tentativo di rendere accettabile il deposito, è stata quella di Sara Boarin, ricercatrice del Politecnico di Milano, dipartimento energia, che ha esposto l’impatto economico del deposito. «Il deposito non è una struttura economicamente passiva che riceve solo radioattivi e li stocca – ha detto la Boarin – ma crea valore sul territorio attraverso contratti con le aziende fornitrici, posti di lavoro, entrate fiscali e spill over tecnologico». Compreso l’indotto legato all’accoglienza, come in Francia dove c’è un indotto “turistico” formato dai visitatori dei depositi.

Sul piano dei costi il deposito dovrebbe costare 1,5 miliardi di euro, creare 1.500 posti di lavoro durante la realizzazione e 700 posti di lavoro una volta a regime. Ed è proprio questa ultima cifra a suscitare qualche perplessità visto che al deposito dell’Aube, nei pressi di Troyes, ci sono 230 addetti diretti e 512 totali contando l’indotto, mentre a El Cabril in Spagna quelli diretti sono 180. La differenza in termini di occupazione dovrebbe essere fatta dal Polo tecnologico che però, oltre alla denominazione, è un mistero.

Durante l’esposizione, infatti, sono stati citati Poli tecnologici che non hanno nulla a che fare con il nucleare ed è altamente improbabile che assieme al deposito si vogliano fare dei laboratori per la sperimentazione e la ricerca sulle scorie nucleari. Per tre motivi. Il primo è che si ridurrebbe drasticamente l’accettabilità sociale di tutta la struttura, il secondo è rappresentata dal fatto che non possediamo più l’intera filiera del trattamento del combustibile e delle scorie nucleari in Italia – infatti per il trattamento delle nostre scorie ad alta intensità ci siamo rivolti alla Francia – mentre il terzo è che sarebbe molto difficile trovare imprese locali, o start up che vogliano investire su tecnologie di trattamento delle scorie nucleari, vista la presenza di Sogin nel mercato nazionale, e quella di francesi, statunitensi e inglesi, su quelli esteri.

E poi il fatto che il “Polo tecnologico” possa attrarre imprese da altri settori è una chimera, visto che si tratterebbe di lavorare, con ogni probabilità, in un luogo isolato. L’indicazione, quindi, che le imprese e le start up, grazie al Parco Tecnologico potrebbero accedere al mercato da 80-100 miliardi di euro del decommissioning europeo è abbastanza opinabile nei fatti, mentre potrebbe essere vera per Sogin, visto che si sta “facendo le ossa” sullo smantellamento di quattro centrali nucleari tutte di tipologie diverse che sono arrivate in molte nazioni a fine vita.

Ultimo accenno alla compensazione che secondo i relatori non deve essere associata in nessun modo al concetto di rischio «perchè la struttura è vicina al rischio zero». Ed è stato citato il caso delle due cittadine svedesi che concorrendo entrambe per la localizzazione del deposito hanno deciso che la maggior parte delle compensazioni sarebbe andata a quella perdente, a causa dei maggiori “vantaggi” di quella vincente. Per la cronaca si tratta di due cittadine che sorgono nei pressi di centrali nucleari e il contesto socio-politico italiano non è assimilabile a quello svedese. «È possibile comunicare che una struttura di questo tipo ha un impatto positivo sul territorio», hanno concluso i relatori invitando i giornalisti a «una corretta comunicazione al pubblico italiano che deve essere fatto crescere».

Una corretta comunicazione che però non può essere fatta di omissioni, ridondanza di informazioni teoricamente “positive”, quasi a sfiorare il marketing e di ipotesi facilmente smentibili con pochi colpi di mouse. Altrimenti il pericolo di una comunicazione di questo tipo è proprio quello che in teoria si vorrebbe evitare: il blocco del deposito nucleare. Che in Italia deve essere fatto.

(foto: lavori di decomissioning alla centrale di Caorso, cortesia Sogin)

ADV
×