Includiamo i danni e il kWh da carbone ci costa 3 volte quello da fotovoltaico

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Uno studio di un professore della Duke University quantifica economicamente le esternalità negative su salute, ambiente e clima che le fonti energetiche fossili scaricano sulla collettività. Un litro di benzina costerebbe 2,5 euro, mentre il costo reale dell'elettricità da carbone è il quadruplo di quello sostenuto da chi la produce e circa tre volte di quello del fotovoltaico.

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Se nel prezzo dell’energia fossero inclusi anche i danni che la sua produzione causa ad ambiente e salute umana, un litro di benzina dovrebbe costare circa un euro in più e un kWh di elettricità da carbone quattro volte il costo sostenuto ora da chi lo produce: circa 40 eurocent, pari a 3 volte il costo di un kWh da fotovoltaico. Che le fonti fossili siano economicamente competitive solo perché scaricano le esternalità negative sulla collettività è un concetto che non ci stanchiamo di ripetere. Di recente, su questo tema, è stato pubblicato uno studio che prova a quantificare economicamente i danni fatti dall’energia da fonti fossili.

A quali risultati si arriva? Tenendo conto degli impatti ambientali e sanitari, un gallone di benzina dovrebbe costare 3,80 $ in più (cioè appunto circa 1 euro in più al litro), un gallone di gasolio 4,80 $ in più (cioè 1,2 euro/litro in più); il costo del kWh da carbone passerebbe da 10 a 42 c$/kWh, quello da gas da 7 c$ (negli Usa dove è meno caro) a 17 c$/kWh. Solare ed eolico, per i quali il governo statunitense stima un costo rispettivamente di 13 e 8 c$, a quel punto non temerebbero confronti (vedi grafico). Sul nucleare ben altre, irrisolte, problematiche sarebbero da tenere presenti.

Secondo gli stessi calcoli, un’auto a benzina, solo per le sue emissioni, produce in media 2mila dollari all’anno di danni a salute e ambiente che pesano sulla collettività; un veicolo elettrico alimentato con elettricità prodotta con il carbone ne causa 1000 all’anno, che diventano 300 se l’elettricità viene da centrali a gas, che invece sono nulli se l’energia è generata da fonti rinnovabili come solare ed eolico.

A fornire queste quantificazioni è una nuova ricerca di Drew T. Shindell, professore della Duke University, pubblicata sulla rivista peer-reviewed Climatic Change (vedi allegato in basso).

Lo studioso parte dalla metodologia del Social Cost of Carbon (SCC), la stessa adottata dal 2010 dal Governo statunitense per quantificare gli impatti della CO2, e la amplia per comprendere l’impatto di altre sostanze emesse in atmosfera nella produzione energetica che hanno impatti su clima, ambiente e salute. Ne scaturisce una metodologia detta Social Cost of Atmospheric Release (SCAR), che prova a monetizzare, oltre agli impatti per le emissioni di CO2, ci sono quelli causati da emissioni di altre sostanze come metano, polveri sottili, diossido di zolfo, e altre ancora.

Il lavoro di Shindell si inserisce in un filone abbastanza nutrito di studi simili e ammette chiaramente la difficoltà di arrivare a una quantificazione precisa dei danni. Gli impatti sono infatti moltissimi: da quelli sulla salute a quelli sulla produttività agricola, solo per citare due categorie. Ma poi a quelli diretti si sommano quelli indiretti, dovuti all’effetto climalterante, particolarmente difficili da stimare.

Si pensi, ad esempio, che un altro recente studio, pubblicato su Nature da due ricercatrici della Stanford University, Frances Moore e Delavane Diaz, stima che l’anidride carbonica possa produrre danni alla collettività sei volte maggiori di quanto calcolato con la metodologia finora accettata dell’SSC. Peraltro né lo studio di Shindell, né quello di Diaz e Moore tengono in conto altri effetti, come la perdita di biodiversità, l’acidificazione degli oceani, l’impatto sugli ecosistemi dei nitrati, gli effetti delle emissioni sulla visibilità.

Insomma: c’è ancora molta ricerca da fare per capire quanto ci costano davvero le fossili, ma sembra già sufficientemente chiaro che continuare nel loro uso sfrenato è un pessimo affare. “Gli impatti su clima e salute umana sono molto più alti di quello che si pensava finora”, commenta Shindell, che spera che il suo studio possa fornire ai decisori politici un quadro più preciso per valutare costi e benefici delle diverse scelte energetiche.

Nel mercato attuale, spiega, chi produce energia praticamente non paga quasi nulla dei guasti che provoca. È la collettività a farsi carico dei costi sanitari, dell’aumentata mortalità, della minore produzione agricola, dell’incremento del rischio di fenomeni meteorologici estremi e del resto. E non si tratta certo di spiccioli: le quantificazioni di Shindell non sembrano per nulla esagerate se si pensa che, secondo altri studi, solo le emissioni di pm 2.5 in certi Paesi come la Cina incidono per oltre 10 punti percentuali di PIL; si veda il grafico sotto (da Hamilton, K. 2014. “Calculating PM 2.5 Damages for Top Emitters: A Technical Note” via Grantham Institute).

Lo studio “The Social Cost of Atmospheric Release”, Drew T. Shindell. (pdf)

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