Il picco del petrolio … nonostante tutto

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Bassi prezzi del barile significano che il concetto di 'picco del petrolio' va messo da parte? Rifacciamo il punto su esaurimento delle risorse, petrolio convenzionale e non, costi di estrazione e prezzi. Un articolo di Luca Pardi, Segretario di Aspo-Italia e Primo Ricercatore CNR Pisa pubblicato sul blog della SCI, Società Chimica Italiana.

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Capita spesso di trovare articoli di stampa in cui si mostra di non aver capito cosa sia il picco del petrolio, né quali siano i segnali che, ragionevolmente, ne indicano l’approssimarsi. Il picco del petrolio non è la fine del petrolio., come abbiamo ripetuto fino alla noia per anni. Il picco del petrolio è il massimo di produzione ed è dunque, paradossalmente, ma altrettanto ovviamente, il momento di sua maggiore disponibilità. Il problema si verifica nel momento in cui la produzione comincia a scendere.

Il fenomeno dell’esaurimento esiste per ogni risorsa che venga sfruttata ad una velocità superiore a quella di rigenerazione. Da questo punto di vista si può dire che non esistano risorse che siano rinnovabili o non-rinnovabili in assoluto. Il diagramma sotto (fig. 1) mostra i tempi di rigenerazione delle principali categorie di risorse naturali e le mette in relazione ai tempi storici e alla dimensione temporale della vita umana, rappresentata dall’area di colore grigio che va dalle decine di anni ai millenni.

È abbastanza ovvio notare che per risorse i cui tempi di rigenerazione si misurano nelle decine e centinaia di milioni di anni si possa parlare di non-rinnovabilità in senso stretto. Che queste risorse siano soggette ad un picco è un fatto ineluttabile.

Abbiamo già avuto un picco e i suoi effetti sono stati piuttosto dirompenti. Alla metà degli anni ’10 di questo secolo abbiamo raggiunto e superato il picco del petrolio convenzionale che, fino ad allora forniva oltre il 60% dei consumi mondiali. Il petrolio convenzionale è solo una parte del petrolio che è, a sua volta, una parte di tutti i liquidi combustibili (vedi fig. 2). Esso corrisponde anche al petrolio facile da estrarre e, dunque, meno costoso.

È la IEA che a partire dal 2010 ha iniziato ad ammettere l’evento dopo anni di militanza negazionista sul picco, presumibilmente indotta dai governi dell’OCSE da cui è controllata e non dai suoi valenti tecnici (sotto fig. 3: Produzione di petrolio nelle proiezioni IEA del 2013, WEO 2013). Il petrolio convenzionale ha raggiunto e superato il picco nel 2005-2006 come previsto da Colin Campbell e Jean Laherrere nel 1998 nel loro articolo su Le Scienze intitolato “La fine del petrolio a buon mercato”.

Il tentativo, in parte riuscito, di rivitalizzare la produzione della categoria del convenzionale, andando a sfruttare giacimenti più piccoli e dispersi, più profondi e tecnicamente problematici, meno accessibili sia dal punto di vista geografico che geostrategico ha avuto un costo considerevole. Quelli che sommariamente potremmo far entrare nella categoria che nella figura sopra è indicata come: “fields yet to be developed” e “yet to be found”.

Sappiamo che a partire dal 2005 i costi di estrazione sono aumentati ad una media dell’11% ogni anno per un costo totale a carico delle compagnie petrolifere di 2500 miliardi di dollari solo per sostenere la produzione di questa categoria pregiata di liquidi combustibili. Il risultato è stato un mero rallentamento del loro declino che dai 70 Mb/d al picco è sceso a circa 67 Mb/d. Vale la pena di confrontare questo sforzo con quello che dal 1998 al 2005, con una spesa di 1500 miliardi di dollari, aggiunse alla produzione 8,6 Mb/d. L’ulteriore sforzo per la produzione di petrolio di scisto attraverso la tecnica del fracking ha vaporizzato altre centinaia di miliardi di dollari.

Una delle caratteristiche dei liquidi classificati in figura 2 è quella di essere sostanzialmente diversificati per proprietà, origine, costi economici ed energetici. Dal punto di vista fisico ed economico uno dei parametri dirimenti dovrebbe essere l’EROEI (Energy Return on Energy Investment) che quantifica il costo energetico della risorsa. Da questo punto di vista un barile di petrolio ottenuto dalle sabbie bituminose o dai nuovi giacimenti di olio di scisto del Texas e del Nord Dakota non vale quanto un barile di petrolio convenzionale. Perché i due differiscono sostanzialmente nel costo energetico, cioè nell’energia che deve essere spesa per estrarli che, in modo complesso e non sufficientemente indagato in campo economico, si rispecchia poi nel costo economico di estrazione. I costi di estrazione sono la rappresentazione economica del sottostante fisico definito dall’EROEI. Il rapporto fra costi di estrazione e prezzo di mercato determina la redditività dei diversi progetti petroliferi e, dunque, la situazione economica delle compagnie petrolifere e dei paesi produttori.

Secondo le stime di vari autori [C. Hall , 2014] l’EROEI del petrolio e gas USA è diminuito da valori prossimi a 100:1 (significa che con l’equivalente di 1 barile se ne estraggono 100) nella prima metà del secolo XX, a valori nell’intervallo 40-20 negli anni ’70, fino alla situazione attuale in cui ha raggiunto valori inferiori a 20 e spesso molto più bassi.

Questa breve discussione del tema dovrebbe convincere il lettore che è quantomeno tecnicamente problematico presentare la produzione di liquidi combustibili affatto diversi (cfr figura 2) come una mera somma di volumi dato che i diversi volumi, o per caratteristiche intrinseche, o per diversi valori di EROEI hanno contenuti energetici differenti. Questo feticismo volumetrico induce un falso punto di vista sulla realtà energetica globale.

E passiamo ad esaminare la questione del prezzo.

Nei primi anni di questo secolo si è osservato un chiaro effetto inflattivo all’avvicinarsi del picco del convenzionale. La fine del petrolio a buon mercato si stava avvicinando. Tale effetto è stato chiarissimo in prossimità e subito dopo il picco del petrolio convenzionale. La crisi economica che è seguita ha ucciso la domanda facendo precipitare il prezzo in modo sostanziale nel biennio 2008-2009. In realtà anche qui le cose sono più complesse. Scrive Euan Mearns: The 2008 oil price crash began in early July. It was not until 16th September, about 10 weeks later, that the markets crashed. The recent highs in the oil price were in mid-July but it was not until WTI broke through $80 at the end of October that the industry became alert to the impending price crisis. [E. Mearns, 2015]

Dunque gli eventi del 2007-2008 potrebbero essere ricostruiti come segue: dopo oltre un lustro di crescita ininterrotta del costo dell’energia nell’economia globale si è inceppato qualcosa, la domanda ha vacillato e il prezzo del greggio ha iniziato la prima caduta, la crisi dell’economia reale doveva essere già dispiegata quando i mercati finanziari l’hanno registrata. I primi segnali di crisi dovevano essere già attivi nel 2007 quando è iniziata la crisi dell’immobiliare americano cosiddetto “dei subprime”.

Si deve notare che comunque al minimo del 2009 il prezzo non ha mai toccato il minimo pre-crisi di 20 $/b (corretto per l’inflazione). In seguito il prezzo medio si è assestato e dal 2010 è rimasto abbastanza alto da indurre i consumatori occidentali all’autocontrollo, ma non abbastanza da rendere totalmente redditizi i progetti estrattivi più complessi. Questa dinamica era già pienamente dispiegata alla fine della primavera scorsa quando con il petrolio appena sotto i 100 $/b le compagnie petrolifere iniziavano già a tagliare sugli investimenti.

Il crollo del prezzo iniziato a settembre ha chiaramente messo fuori mercato la maggior parte della produzione ad alto costo, ma siccome i costi sono generalmente già stati sostenuti la produzione non inizierà a calare immediatamente. Verranno annullati o messi in standby progetti di estrazione futuri. Il che prefigura un calo futuro della produzione. Se questo possa essere definitivo o innescare un nuovo ciclo di rialzo è materia di contesa.

A tutto quanto detto andrebbe aggiunto un vasto capitolo per trattare dell’impellente necessità di tagliare le emissioni di gas serra e dunque il consumo di combustibili fossili, e di quanto eventuali serie politiche di contenimento delle emissioni si riverberano in campo economico e finanziario. Non è questo lo spazio in cui sviluppare questa tematica strettamente legata a quella trattata. Sul tema della sostenibilità delle riserve note di combustibili fossili ci limitiamo ad indicare un fondamentale contributo uscito su Nature nelle scorse settimane (Qualenergia.it). Con una lettera di Christopher McGlade e Paul Ekins Nature affrontava il tema del legame fra sfruttamento delle risorse di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) e l’impegno politico dei governi a non superare il limite dei 2°C del riscaldamento climatico da qui al 2100. Sulla base di una indagine sulle riserve esistenti i due estensori del lavoro concludono che un terzo delle riserve di petrolio, la metà di quelle di gas e l’80% di quelle di carbone dovrebbero essere lasciate dove sono da qui al 2040. Lo sviluppo delle risorse non convenzionali appare come non compatibile con l’impegno di non far aumentare la temperatura oltre i 2 °C.

Il fatto è che con il picco del petrolio convenzionale siamo entrati in una era completamente nuova dal punto di vista energetico, e siccome senza energia non si fa nulla, la novità coinvolge tutta la società umana. A questo va aggiunto che tale situazione economica si sta verificando nel momento stesso in cui si manifestano sempre più chiaramente i segni di una crisi ecologica senza precedenti determinata dal superamento dei confini biofisici del pianeta da parte del metabolismo sociale ed economico umano.

L’ottimismo preconcetto è di scarsa utilità in questo frangente, purtroppo anche molti scienziati e tecnici tendono ad aderire a questo atteggiamento “spensierato”, magari tacciando di catastrofismo chi invece non lo fa. Il dibattito scientifico e mediatico sul tema è molto ricco [L. Pardi, 2015] in questo momento dal nostro punto di vista è essenziale distinguere il grano dalla pula, l’analisi razionale da quella ideologica.

L’articolo di Luca Pardi è stato pubblicato sul blog della SCI, Società Chimica Italiana.

Luca Pardi è autore del libro “ll paese degli elefanti. Miti e realtà sulle riserve italiani di idrocarburi. Lu:Ce edizioni. 2014.

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