Da Lima a Parigi la strada sul clima è in salita. Un’analisi della Cop 20

CATEGORIE:

Tagliare la CO2 con rinnovabili ed efficienza energetica costa sempre meno, i danni dei cambiamenti climatici sono ormai evidenti, ma i negoziati procedono troppo lenti per la sfida. “Lima lascia grossi nodi irrisolti e difficilmente a Parigi 2015 si riuscirà ad avere un patto robusto come quello di Kyoto”, prevede l'esperto Leonardo Massai.

ADV
image_pdfimage_print

“A Lima non ci sono stati significativi progressi; i nodi più importanti restano da risolvere e la strada verso Parigi è tutta in salita”. Non lasciano spazio a grandi illusioni le parole di Leonardo Massai, esperto dei negoziati internazionali sul clima che ci ha fornito la sua visione personale al di là del suo ruolo di negoziatore, che ha svolto per conto di alcuni paesi in via di sviluppo sia alla Cop 20 che in altre conferenze UNFCCC. In contrasto con le dichiarazioni ufficiali come quella del nostro ministro dell’Ambiente, che ha parlato di “importante passo avanti verso Parigi e di “segnale forte dalla comunità internazionale”, Massai è decisamente pessimista.

Quali sono i risultati principali di questa Cop 20?

Non ci sono stati molti passi avanti. Il documento finale, il Lima Call for Climate Action (allegato in basso, ndr), è stato ridotto a 4 pagine, dalle 18 da cui si era partiti due o tre giorni prima della conclusione: quando non c’è consenso si tolgono le parti più controverse. L’obiettivo della conferenza era quello di produrre due testi: una prima bozza di testo negoziale per Parigi 2015 e una decisione sulle cosiddette INDC (Intended Nationally Determined Contributions, ndr), gli impegni di riduzione che i Paesi dovranno presentare. La bozza – un allegato alla Call for Action – in realtà è solo un collage delle posizioni delle parti. La decisione che doveva fare chiarezza sulle informazioni che i vari Paesi devono presentare in merito agli impegni non introduce dettagli significativi rispetto a quanto si era deciso a Varsavia, anzi ampi stralci sono direttamente copia-incollate dal documento stilato in quella sede. Non si è trovato un accordo tra le parti su molti aspetti: se e quanto i paesi in via di sviluppo debbano contribuire e quale debba essere l’impegno complessivo.

In molti si aspettavano che il recente accordo tra Usa e Cina desse una nuova spinta ai negoziati. Non è stato così?

Si è parlato moltissimo dell’accordo, ma in quanto a posizioni concrete non è cambiato molto, né da parte della Cina e delle altre potenze emergenti né degli Usa e delle altre potenze occidentali. Dietro le quinte c’è comunque un dialogo molto aperto tra Cina e paesi sviluppati. Cina, Brasile e India e gli altri due BRICS parlano molto di più con i Paesi occidentali di quanto emerga dal documento conclusivo.

Tra i temi caldi della Cop 20 c’era il cosiddetto Loss and Damage – il risarcimento che i paesi in via di sviluppo chiedono per i danni che stanno subendo a causa dei cambiamenti climatici – e l’implementazione del Green Climate Found previsto a Copenaghen. Quali evoluzioni ci sono state su questi temi?

Il riferimento al Loss and Damage è stato cancellato dal documento finale nelle ore finali dei negoziati: i paesi industrliazzati sono ancora restii a fare questa concessione a quelli in via di sviluppo. Sul Green Climate Fund l’accordo invece si è raggiunto, dopo un negoziato intenso. Il fondo ora è attivo ed è già partita la fase di accredito per richiedere i fondi. A Lima sono stati fatti anche molti annunci di stanziamenti per il fondo ed è stata superata la soglia dei 10 miliardi di $, che era il primo obiettivo fissato per il fondo. Hanno annunciato contributi anche Paesi come Messico e Panama.

Quali sono i paesi che frenano e quali quelli che spingono per un accordo ambizioso?

Tra i più timorosi ci sono i BRICS. Sono loro che hanno in mano il pallino e sono riluttanti a fare passi avanti, anche se il dialogo è serrato. Tra chi spinge di più invece c’è l’Europa, che è già vincolata dalla normativa interna, i paesi in via di sviluppo più vulnerabili, come le piccole isole e i paesi latinoamericani dell’AILAC (Cile, Costa Rica, Panama, Perù e Guatemala, ndr).

Gli Stati Uniti come si collocano in questo quadro? La loro posizione è cambiata rispetto al passato?

A livello di negoziato internazionale non molto. Nel loro intervento politico gli Stati Uniti hanno fatto riferimento all’accordo con la Cina, ad un grande sforzo a livello interno. Ma non ci sono stati grandi passi avanti dal punto di vista degli impegni multilaterali: l’approccio statunitense, simile a quello cinese, è di voler procedere con impegni volontari.

Per come si sta delineando la situazione, quali aspettative ha per Parigi 2015?

Sono molto pessimista, anche se per fortuna da qui all’anno prossimo molte cose possono accadere. A Lima non è stato fatto nessun passo avanti significativo e l’anno prossimo anno i negoziati proseguiranno a ritmo serrato. Ad oggi non sappiamo ancora se quello di Parigi sarà un nuovo trattato, un nuovo protocollo se ci saranno decisioni aggiuntive… Da Lima esce un testo confuso con linguaggi diversi e proposte di ogni tipo: sarà molto difficile trovare un accordo. Il negoziato dovrà partire da Ginevra a febbraio e ci saranno almeno 4 sessioni nel corso dell’anno. Bisogna evitare che si ripeta quanto accaduto nel cammino verso Copenhagen, quando si è arrivati a pochi mesi dal meeting con un testo troppo vasto e troppo indecifrabile. La strada è in salita, ci sono molti nodi da sciogliere

Il mondo dell’energia sta cambiando, le rinnovabili sono sempre più competitive e vi investono massicciamente potenze in via di sviluppo come India e Brasile, ma soprattutto la Cina, che sta facendo uno sforzo enorme per ridurre il consumo di carbone e ha piani molto ambiziosi sulle energie pulite. Allo stesso tempo l’evidenza dei danni economici che il cambiamento climatico provoca e provocherà è sempre più chiara. Questi elementi non bastano per farci sperare in un cambio di marcia nei negoziati?

C’è certamente una maggior predisposizione al dialogo: BRICS e paesi sviluppati hanno capito di essere sulla stessa barca. Il problema è che il negoziato avviene nella cornice delle Nazioni Unite, cosa che rende difficile superare i blocchi: il sistema decisionale si regge sul consenso, ci deve essere l’accordo di tutti Paesi. Inoltre molte nazioni sono spaventate dal fatto che, come stabilito a Durban, si vada verso un accordo “vincolante”. Non c’è la volontà politica di arrivare ad un sistema come quello del Protocollo di Kyoto, che ha una sorta di tribunale per valutare l’adempimento degli impegni. Inoltre lo stesso livello degli obblighi è ancora indefinito: non c’è ancora una deadline per presentare gli INDC e poi bisognerà vedere come questi impegni verranno integrati nel testo che uscirà da Parigi, la mia sensazione è che non vi entreranno come ‘vincolanti’.

Il testo uscito dalla Cop 20 di Lima (pdf)

ADV
×