Un green new deal per il clima e contro la crisi

Come spiega l'ultimo rapporto IPCC, per essere efficaci nel rallentare il global warming bisogna azzerare le emissioni da fossili. La buona notizia è che le soluzioni per farlo, cioè rinnovabili ed efficienza, sono sempre più convenienti dal punto di vista economico: possiamo vincere la sfida clima creando anche benessere. L'editoriale di Silvestrini.

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Nella sintesi finale del quinto rapporto dell’Ipcc presentato all’inizio di novembre a Copenhagen si trovano passaggi che rafforzano le valutazioni fatte da questo organismo nel corso degli ultimi 25 anni e ci sono novità nella sottolineatura degli interventi da adottare. I dubbi sulla gravità della situazione si riducono e la constatazione del raggiungimento dei più elevati livelli di concentrazione della CO2 in atmosfera da 800.000 anni sottolineano la necessità di agire rapidamente. In caso contrario: «il cambiamento del clima accelererà la probabilità di gravi, pervasivi e irreversibili impatti per le popolazioni e per gli ecosistemi».

Per la prima volta in maniera chiara si dice che, per avere buone probabilità di non superare la soglia di 2 °C di incremento della temperatura rispetto al periodo preindustriale, alla fine del secolo le emissioni legate ai combustibili fossili si dovranno praticamente azzerare. «Dobbiamo agire ora per ridurre le emissioni di CO2, ridurre gli investimenti nel carbone e adottare energie rinnovabili per evitare il peggioramento del clima che si evolve a una velocità senza precedenti» ha commentato il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, aggiungendo: «L’azione contro il cambiamento climatico può contribuire alla prosperità economica, a un migliore stato di salute e a città più vivibili».

Due i messaggi da sottolineare: da un lato la chiarezza della proposta, l’azzeramento delle emissioni, e dall’altro la valutazione che questo obiettivo si possa raggiungere senza gravi danni alle economie, anzi contribuendo al benessere dell’umanità. Per far digerire la radicalità dell’indicazione sul taglio delle emissioni, il rapporto insiste molto sulla tecnologia di sequestro della CO2. Ai Paesi produttori di carbone, petrolio e gas, in sostanza, si dice: «Guardate che questi combustibili si potranno ancora utilizzare se si svilupperà il CCS». Questo auspicio, in realtà, contrasta con il notevole scetticismo che circola sulla sua fattibilità economica e con i forti rallentamenti dei programmi di sperimentazione.

In realtà, qual è la riflessione che fa ritenere praticabili obiettivi così spinti e che fa sperare che alla Conferenza sul clima di Parigi l’anno prossimo potranno essere raggiunti risultati positivi? È la consapevolezza, ormai anche a livello politico, della crescente affidabilità di alcuni strumenti di riduzione delle emissioni. Alla Conferenza di Copenhagen del 2009 la loro incisività non era ancora così evidente. A questo risultato si è arrivati grazie alla decisa riduzione dei costi di molte nuove tecnologie, dalle rinnovabili all’efficienza, dalla mobilità all’industria, in grado di facilitare notevolmente le politiche di contenimento delle emissioni.

Prendiamo il caso delle fonti rinnovabili. Alcuni dati spiegano la diversità di percezione che si ha oggi del loro ruolo. Tra il 2009 e il 2014 la potenza eolica e solare è triplicata arrivando a 540 GW, ma soprattutto il costo del kWh eolico si è ridotto del 58% e quello del fotovoltaico del 78%. Questo trend di riduzione dei prezzi spiega perché lo scorso anno nel mondo si è installata più potenza da rinnovabili che da centrali fossili e nucleari.

Ma l’ottimismo è alimentato anche dalle evoluzioni tecnologiche che stanno avvenendo sul lato dell’efficienza. Nel campo dell’illuminazione, le lampade a Led hanno visto un calo annuo dei prezzi del 15% ed è previsto un ulteriore dimezzamento delle quotazioni entro il 2020. Materiali isolanti innovativi a base di aerogel hanno visto i costi ridotti del 70% negli ultimi tre anni. Anche il prezzo delle batterie, che saranno indispensabili sul medio e lungo periodo per le rinnovabili e le auto elettriche, si è dimezzato negli ultimi cinque anni. E il Dipartimento dell’Energia statunitense si è posto l’obiettivo di ridurre di quattro volte il prezzo degli accumuli nel periodo 2013-2018. Questi ambiziosi target rendono realistici gli scenari di una diffusione su larga scala sia dei veicoli elettrici che del fotovoltaico.

Ed è proprio la constatazione di queste dinamiche che consente alla IEA, solitamente criticata per la sua cautela sulle rinnovabili, di formulare scenari secondo i quali entro la metà del secolo le tecnologie solari potrebbero diventare il principale produttore di elettricità nel mondo e di valutare in 71 trilioni di dollari i benefici di uno scenario climatico spinto. Anche alcuni recenti rapporti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale rilevano la possibilità di garantire un’efficace riduzione delle emissioni con risvolti positivi per l’economia, grazie anche ai benefici legati agli effetti collaterali degli interventi, in particolare sulla salute. Del resto, l’ultimo rapporto dell’Ipcc indica un impatto molto modesto delle politiche radicali necessarie per evitare di superare i 2 °C di temperatura. L’incidenza media annua entro la fine del secolo sarebbe pari a un calo solo dello 0,06% del Pil.

E proprio sulla base delle evoluzioni tecnologiche in atto e dei risultati di questi studi, il premio Nobel Paul Krugman ha recentemente scritto: «L’idea che lo sviluppo economico e le strategie per il clima siano incompatibili può sembrare ragionevole, ma in realtà è più il pregiudizio di una mente confusa. Se riusciremo a superare gli interessi di parte e le ideologie che hanno bloccato finora le azioni per salvare il Pianeta, scopriremo che questo risultato è molto meno costoso e più facile di quanto normalmente si pensi».

L’altro elemento da sottolineare e che emerge sempre più spesso nei rapporti sul clima è la necessità di intervenire rapidamente per limitare i consumi di carbone. L’incitamento a «ridurre gli investimenti nel carbone» del Segretario dell’Onu è una frase che riecheggia gli slogan della campagna “Divest fossil” per spostare gli investimenti dai fossili alle rinnovabili. Ed è, in questo senso, molto interessante la proposta del Governo danese di studiare l’eliminazione entro il 2025 delle centrali a carbone, che forniscono al Paese il 38% dell’elettricità. Una scelta coerente con la strategia che punta a uscire totalmente dai combustibili fossili entro 35 anni (trasporti e calore inclusi) e con l’obiettivo di soddisfare con l’eolico la metà dei consumi elettrici alla fine del decennio. Anche la Germania sta irrigidendo la sua posizione sul carbone con l’imposizione di limiti più rigidi alle emissioni. Proprio come hanno fatto gli Usa con la proposta di Obama di ridurre entro il 2030 del 30% le emissioni di CO2 del settore termoelettrico, in larga parte a carbone, rispetto al 2005.

Ma la notizia più importante per il clima viene dalla Cina. Secondo gli ultimi dati, per la prima volta da un secolo, nel 2014 il consumo di carbone si sarebbe ridotto dell’1%. Se confermati, questi valori rileverebbero l’efficacia di una serie di misure recentemente adottate per far fronte alle terribili condizioni di inquinamento delle città cinesi ed evidenzierebbero l’impatto della rapida crescita delle rinnovabili, con 12-13 GW fotovoltaici installati nel 2014, un’analoga potenza eolica e un forte incremento nell’idroelettrico.

E a proposito della campagna “Divest fossil”, interessanti sviluppi si sono registrati in Australia, Paese che produce il 69% della propria elettricità con il carbone e che è il secondo esportatore mondiale di questo combustibile. Dopo il successo ottenuto con l’adesione dell’Australian National University, il 18 ottobre si è tenuto il “National Divestment Day”, giornata in cui centinaia di persone hanno disinvestito i propri risparmi dalle Banche coinvolte nel finanziamento delle miniere di carbone.

Il presidente della Commissione europea, Juncker, ha annunciato la predisposizione di un fondo di 300 miliardi di Euro per rilanciare l’economia. Ovviamente già circolano le proposte più diverse sull’impiego di queste risorse. Sembrerebbe quasi naturale che una parte significativa venisse destinata al rilancio della green economy.

Per capire le prospettive che si aprono, è opportuno fare un passo indietro e ricordare le risposte dei diversi Paesi alla crisi del 2008. In quell’occasione, infatti, una quota degli investimenti per il rilancio dell’economia si colorò di verde. Gli Usa qualificarono in tal senso il 12% del loro pacchetto di stimoli, la Germania il 13%, la Cina il 38%, la Corea del Sud l’81%. E l’Italia? Solo l’1%. Peraltro, la situazione attuale richiederebbe uno sforzo maggiore sul versante energetico ambientale rispetto a sei anni fa per una serie di motivi.

Allora molti Paesi avevano avviato importanti programmi di incentivazione delle fonti rinnovabili, che al momento invece è difficile proseguire per gli impatti degli incentivi sulle tariffe. Oggi il tema di sicurezza energetica del Continente si è fortemente amplificato in relazione con la delicata situazione in Ucraina, Libia e Iraq. Vi è poi da considerare l’aumento dei fenomeni estremi. In Italia, la frequenza e l’entità di precipitazioni molto intense sul 70% della superficie italiana sottolineano l’urgenza di avviare una seria politica di riduzione dei rischi legati al dissesto idrogeologico.

Le proposte che possono essere formulate per avviare un nuovo Green Deal sono molte e vanno dal sostegno a una politica di riqualificazione spinta degli edifici e di interi quartieri, proposta sostenuta dalla Direzione Energia della Commissione, al supporto alla biochimica che vede punte di eccellenza nel nostro Paese, al rilancio europeo dell’industria delle rinnovabili, degli accumuli e dei veicoli elettrici. E naturalmente andrebbero previste misure di adattamento climatico, particolarmente urgenti in un Paese territorialmente fragile come il nostro.

Per quanto riguarda le risorse finanziarie, oltre a quelle proprie dell’Unione, si potrebbero definire strumenti nuovi, quali l’introduzione di una tassa europea sulle transazioni finanziarie e una carbon tax a livello europeo, risorse che consentirebbero un forte potenziamento dei programmi del Green Deal e l’avvio di una risposta incisiva sul fronte occupazionale e di superamento dell’attuale stagnazione economica.

A motivare ancor di più la nostra voglia di cambiamento poi è giunta la notizia dell’intesa sul clima tra Cina e Usa. Diventa a questo punto molto più probabile il raggiungimento di un accordo alla Conferenza sul clima dell’anno prossimo a Parigi. È prevedibile inoltre un forte incremento degli investimenti su rinnovabili ed efficienza in tutto il mondo. Il solo impegno della Cina implica la realizzazione ogni anno di 60.000 MW (la metà della potenza elettrica totale installata in Italia) senza emissioni di CO2, prevalentemente da fonti rinnovabili. Peraltro è probabile che le emissioni raggiungano un picco in Cina ben prima del 2030 indicato nell’accordo. Lo scorso anno la nuova potenza da rinnovabili ha superato infatti quella delle nuove centrali a carbone e nucleari. Inoltre, secondo i primi dati del 2014, si sarebbe registrata una storica inversione con un calo dell’1% dei consumi di carbone.

L’articolo di Gianni Silvestrini è stato pubblicato sul n.5/2014 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Green new deal per il clima”.

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