Accordo Usa-Cina su clima e prospettive per i negoziati. Il punto del Centro Studi del Senato

  • 26 Novembre 2014

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In una "nota breve" il Centro Studi del Senato italiano fa il punto sul cammino dei negoziati internazionali per la lotta al global warming. Partendo dal protocollo di Kyoto si sintetizzano le tappe vissute in questi anni, per soffermarsi sul recente accordo tra Stati Uniti e Cina e sulle prospettive per la COP 21 di Parigi 2015.

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In una “nota breve” il Centro Studi del Senato fa il punto sul cammino dei negoziati internazionali per la lotta al global warming. Partendo dal protocollo di Kyoto si sintetizzano le tappe vissute in questi anni, per soffermarsi sul recente accordo tra Stati Uniti e Cina e sulle prospettive per la COP 21 di Parigi 2015. Riportiamo qui sotto un estratto, relativo al nuovo accordo Usa-Cina (neretti nostri). In allegato in basso trovate il documento in versione integrale (4 pp.), realizzato a cura di Angela Mattiello.

L’inaspettato accordo del 12 novembre 2014 tra Stati Uniti e Cina sulla riduzione delle emissioni di gas serra è stato raggiunto a margine del vertice APEC (Asian- Pacific Economic Cooperation) di Pechino. Il giorno precedente il presidente cinese Xi Jinping aveva ricevuto il suo omologo americano nella Città proibita, Zhongnanhai, per colloqui privati, un gesto eccezionale nei confronti di un Capo si Stato straniero, che imprimeva un’accelerazione imprevista a mesi di negoziati segreti condotti da John Podesta, consigliere per il clima della Casa Bianca.

Come dichiarato nel corso di una conferenza stampa congiunta del presidente Barack Obama e del presidente Xi Jinping, gli Stati Uniti si impegnano a ridurre le proprie emissioni del 26-28% entro il 2025 rispetto ai livelli del 2005, mentre la Cina si impegna a stabilire un picco massimo di emissioni di gas serra entro il 2030 e possibilmente prima -senza precisare target quantitativi di riduzione- e a aumentare la produzione di energia da fonti non fossili al 20% di qui al 2030. In un comunicato congiunto (allegato in basso, ndr), la Cina e gli Stati Uniti ammettono che hanno “un ruolo particolare da rivestire nella lotta contro il cambiamento climatico, una delle più grandi minacce che deve affrontare l’umanità” e annunciano il loro impegno a lavorare insieme per pervenire ad un accordo mondiale legalmente vincolante.

Tuttavia, l’asimmetria degli impegni definiti dai due paesi – dal lato americano si fa riferimento ai livelli di CO2, da quello cinese alla struttura energetica – secondo alcuni osservatori parrebbe indicare come l’accordo sia stato costruito su elementi già noti. Infatti, sembrerebbe che fosse già nei piani di Pechino l’aumento della quota di produzione di energia da combustibili non fossili, nello specifico circa il 10% dal nucleare e l’11-12% dalle fonti rinnovabili, ovvero proprio quel 20% che è stato incluso nell’accordo, a giudicare dai documenti di pianificazione economica cinesi. Inoltre, già da tempo gli osservatori si aspettavano una aumento della quota di fonti rinnovabili e nucleare dal Tredicesimo piano quinquennale che sarà in vigore nel 2016-2020.

Come d’altro canto, uno studio condotto da un gruppo di esperti cinesi pubblicato dal Climate Policy Journal nell’estate 2013, aveva dimostrato come un picco alle emissioni al 2025 fosse realizzabile senza impatto sulla crescita economica a condizione “di impiegare tutte le tecnologie a basso contenuto di carbone disponibili e di una cooperazione internazionale massiccia”. Per gli Stati Uniti l’impegno sulla riduzione delle emissioni passa dal 17% rispetto al 2005 assunto nel 2009 a Copenhagen al 26-28% entro il 2025, implicando un’intensificazione degli sforzi.

Alcuni osservatori ritengono che, a fronte di uno scenario in cui l’iniziativa nello scacchiere asiatico è sempre più in mano a Pechino, come delineato dall’endorsement dell’APEC alla FTAAP (area di libero scambio dell’Asia-Pacifico promossa dalla Cina, progetto antagonista di quello finora portato avanti dagli USA di Trans Pacific Partnership che taglierebbe fuori Pechino), dalla crescita dell’Asian Investment Infrastructure Bank (AIIB) in alternativa all’Asian Development Bank (ADB) e dunque fuori dal controllo della Banca mondiale, nonché dal lancio dei progetti cinesi di una “nuova Via della Seta” marittima e terrestre, la Cina avrebbe scelto di non indebolire eccessivamente un interlocutore importante come gli Stati Uniti, accettando un accordo sul clima di grande enfasi mediatica ma di scarsa concessione nella sostanza da parte della Cina.

In questo modo un Presidente degli Stati Uniti, indebolito dalle elezioni di mid-term, ma determinato ad agire contro il cambiamento climatico, potrebbe presentarsi all’opinione pubblica con un successo diplomatico, riuscendo ad ottenere per la prima volta un compromesso cinese sulla riduzione di CO2. Resta ovviamente il passaggio davanti al Congresso per la ratifica e resterebbe l’opportunità di coinvolgere anche l’India, altro paese responsabile delle emissioni quasi quanto l’Unione europea.

Ad ogni modo, l’affermazione nel comunicato congiunto dell’impegno a lavorare insieme per pervenire ad un accordo mondiale legalmente vincolante può costituire un buon segnale in vista della Conferenza di Lima dove le discussioni tra le 195 Parti si annunciano aspre, soprattutto in tema di sostegno finanziario alla transizione energetica. Un’altra tappa prima di Lima è stata rappresentata il 20 novembre 2014 dal rifinanziamento del Green Climate Fund (meccanismo di finanziamento della Convenzione che opera per la mitigazione e l’adattamento dei PVS, contribuendo allo sviluppo sostenibile), con un impegno per oltre 9 miliardi di dollari.

In Europa è il Presidente francese Hollande che sembra a molti voler tenere le redini del dossier sul clima. Hollande vuole ottenere un grande accordo internazionale a Parigi nel 2015 ed ha ottenuto che il paragrafo n. 19 del comunicato finale del G-20 di Brisbane menzioni tale appuntamento e la necessità di arrivare all’adozione di un protocollo o di altro strumento legale o di altro risultato concertato con forza legale nell’ambito della Convenzione Quadro che sia applicabile a tutte le Parti della COP 218. Anche gli Stati Uniti puntano ad essere la figura di punta della Conferenza di Parigi. L’accordo con la Cina sulla riduzione delle emissioni ha rappresentato un elemento motore prima del G-20 (15-16 novembre 2014), in significativa discontinuità con ilsummit di Copenhagen che Washington e Pechino avevano contribuito a condurre al fallimento.

La “nota breve” del Centro Studi del Senato (pdf)

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