CCS, prima centrale commerciale, ma non è il caso di entusiasmarsi

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Inaugurata in Canada la prima centrale a carbone di dimensioni commerciali con tecnologia per cattura e stoccaggio della CO2. Ma il progetto è stato reso possibile solo grazie ad un mix fortunato di fattori, tra cui un generoso contributo statale e l'uso della CO2 catturata nei pozzi di petrolio. La strada del CCS è in salita e piena di incognite.

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Dopo circa un decennio di speranze promesse e progetti dimostrativi, finalmente l’annuncio: ieri è stato tagliato il nastro della prima centrale termoelettrica vera e propria dotata di tecnologia CCS, ossia di un dispositivo per catturare e stoccare la CO2 emessa bruciando combustibili fossili. Si tratta della rinnovata Unite 3 della centrale a carbone di Boundary Dam di SaskPower nella provincia canadese del Saskatchewan (vedi foto accanto al titolo).

Questo primo impianto CCS di dimensioni commerciali, anche se non grandissime – ha una potenza di appena 110 MW – intrappolerà sotto terra 1 milione di tonnellate di CO2 all’anno, il 90% dell’anidride carbonica emessa: “come togliere dalla strada 250mila auto”, fanno notare da SaskPower. Il gas serra catturato verrà venduto alla compagnia petrolifera Cenvous Energy, che lo pomperà nei propri pozzi per estrarre petrolio con la tecnologia dell’EOR, cioè enhanced oil recovery. La CO2 che non andrà ai pozzi di Cenvous tramite un gasdotto dedicato, sarà invece stoccata in cavità geologiche.

Rinnovare il generatore a carbone esistente, vecchio di 43 anni, e dotarlo di dispositivo CCS è costato 1,35 miliardi di dollari canadesi (cioè 0,95 miliardi di euro), di cui 240 milioni sono stati erogati dal governo canadese.

Al momento ci sono altre due centrali a carbone con CCS in fase di realizzazione: quella di Southern Company a Kemper County in Mississippi, un impianto da 582 MW i cui costi stanno lievitando a 5,5 miliardi di dollari e la cui inaugurazione è stata posticipata a metà 2015 e quella di NRG Energy a Petra Nova, Texas, un generatore da 240 MW che dovrebbe essere pronto per metà 2016. Entrambi i progetti prevedono che la CO2 catturata sia usata nei pozzi di petrolio per EOR.

Per la International Energy Agency – che all’evento ha dedicato un comunicato stampa – l’inaugurazione della centrale canadese è “una tappa storica lungo la strada verso futuro low carbon“. Ma l’entusiasmo della IEA forse è eccessivo e certo il cammino della cattura della CO2 è ancora in salita.

Questa prima centrale a carbone con CCS, infatti, è sostenibile economicamente solo per un fortunato mix di fattori: oltre al generoso contributo pubblico che gli stessi vertici di Sask Power riconoscono come “determinante”, c’è il fatto di disporre di risorse di carbone proprie e gli introiti che vengono dalla vendita della CO2 catturata a chi la usa per estrarre petrolio (e dunque emettere altra CO2).

Che la CCS sia una soluzione complicata, d’altra parte, lo mostrano anche i dati di istituzioni che certo non hanno pregiudizi verso questa tecnologia: secondo il Global Carbon Capture & Storage Institute (GCCSI), ogni MWh prodotto con carbone + CCS costa dai 50 ai 100 dollari in più rispetto ad uno prodotto con una centrale semplice, mentre secondo la IEA aggiungere un impianto di CCS a una centrale a carbone fa aumentare i prezzi medi dell’elettricità tra il 39 e il 64% e del 33% nel caso di una centrale a gas.

Altre preoccupazioni sono legate ai consumi idrici, un problema sempre più sentito per l’acuirsi dei cambiamenti climatici con cui il termoelettrico spesso deve fare i conti (si veda anche questo studio di cui abbiamo parlato di recente). Secondo dati del Dipartimento dell’Energia americano (DOE), le centrali a carbone con CCS consumano tra l’87 e il 93% di acqua in più per MWh prodotto rispetto a quelle tradizionali.

Poi c’è il problema dello stoccaggio vero e proprio. Come detto, se si è fortunati si riesce a trasportare la CO2 fino a un giacimento di gas o petrolio in via di esaurimento, prolungandone la vita con le ovvie ricadute economiche positive. Solo in casi limitati però si può procedere in questo modo, negli altri  trasporto e stoccaggio diventano un costo, magari per un servizio affidato a terzi.

Anche se la CO2 venisse stoccata correttamente e a costi sostenibili, infine, non è detto che farlo sia senza rischi e dia la garanzia che la CO2 venga effettivamente confinata e mai più liberata in atmosfera. Se alcuni scienziati e rappresentanti dell’industria sostengono che la CO2 possa essere imprigionata in maniera sicura per centinaia di migliaia di anni, restano comunque diverse perplessità. Analisi su acque e terreni vicini a siti di stoccaggio ad esempio hanno rivelato piccole fughe e concentrazioni crescenti di anidride carbonica. Se ciò avvenisse regolarmente avremmo rilasciato più emissioni rispetto al continuare con le centrali originarie senza CCS.

Insomma, la cattura della CO2 consentirebbe di preservare lo status quo di un sistema energetico basato sulle fossili, cosa che per qualcuno evidentemente è un grosso vantaggio, ma i punti critici sono decisamente tanti. Tra questi, non ultimo, c’è il rischio che la speranza della bacchetta magica CCS sottragga attenzione e risorse dalle tecnologie e soluzioni più mature, con costi in discesa e ovviamente più sostenibili, come sono oggi le rinnovabili e l’efficienza energetica. Per affrontare il problema dei gas serra, la CO2 è meglio non produrla affatto anziché cercare di catturarla.

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