Tanto gas a basso prezzo non ridurrebbe le emissioni

Doccia fredda per chi ritiene lo shale-gas sia una manna dal cielo contro il global warming. Secondo uno studio della University of California l'abbondanza di gas a basso prezzo avrà effetti scarsi o nulli sulla riduzione delle emissioni. Senza obblighi sulle rinnovabili, infatti, ruberebbe certamente spazio al carbone, ma soprattutto alle fonti pulite.

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Il gas, fonte che produce elettricità in maniera flessibile e relativamente pulita rispetto alle altre fossili, è il ponte più comodo per la transizione energetica verso un’economia low-carbon? O invece rischia di essere una deviazione inutile, che ritarda lo sviluppo delle rinnovabili mantenendoci legati ad un modo di produrre energia basato sulla produzione centralizzata da fonti climalteranti e, in gran parte, importate? La questione è molto dibattuta e sicuramente farà discutere un nuovo studio della University of California che boccia la soluzione gas come via per ridurre le emissioni. La conclusione del lavoro (allegato in basso) è una doccia fredda per chi vede come una manna dal cielo per la lotta al global warming la rivoluzione dello shale-gas, il gas da scisti che ha inondato il mercato americano, facendo scendere i prezzi e bruciare molto meno carbone.

Anche senza considerare le fughe di metano in atmosfera che avvengono durante l’estrazione e il trasporto (che come sappiamo hanno un impatto tutt’altro che trascurabile sull’effetto serra), un’eventuale disponibilità di gas a basso prezzo avrà effetti scarsi o nulli sulla riduzione delle emissioni, emerge dallo studio. Se rimpiazza le centrali a carbone (che emettono il 60% di CO2 in più), infatti, il gas a basso prezzo rallenta lo sviluppo delle rinnovabili, sostengono gli autori, che provengono anche dalla Stanford University e dal think-tank Near Zero.

Lo studio, pubblicato alcuni giorni fa su Environmental Research Letters, si intitola The effect of natural gas supply on US renewable energy and CO2 emissions e, come si intuisce, indaga l’effetto che la disponibilità e l’uso di gas può avere nel ridurre le emissioni degli Stati Uniti. La conclusione a cui si arriva è che, a seconda delle politiche contro il cambiamento climatico messe in campo, da qui al 2055 un’alta penetrazione del gas nel mix energetico americano nella migliore delle ipotesi ridurrebbe le emissioni fino al 5% e nella peggiore le farebbe aumentare fino al 9%.

Gli autori, oltre all’eventualità in cui non si adottino politiche per ridurre le emissioni, hanno indagato diversi scenari di policy: uno in cui si renda operativa una carbon tax “moderata” (25$/tonnellata di CO2 al 2013); uno con un sistema cap and trade che punti a tagliare entro il 2050 le emissioni dell’83% rispetto ai livelli del 2005; un altro basato sul Renewable Portfolio Standard (RPS), cioè un sistema che obbliga a produrre con le rinnovabili quote crescenti di energia.

Come è facile immaginare, l’effetto frenante che un’ampia disponibilità di gas a basso prezzo esercita sullo sviluppo delle rinnovabili è arginato con efficacia solo nel caso in cui si adotti il sistema RPS; negli scenari in cui si opta per la carbon tax o per il cap and trade è comunque limitato rispetto all’ipotesi no-policy.

Come si vede nel grafico sotto, in tutti gli scenari escluso quello del Renewable Portfolio Standard la differenza in termini di emissioni che potrebbe dare il contributo di un gas a basso prezzo è di fatto trascurabile.

Da sottolineare poi che, a differenza di altri lavori, questo non si sofferma più di tanto su quello che è l’aspetto più critico nell’uso del gas, cioè le fughe in atmosfera durante l’estrazione e il trasporto del metano (che sappiamo ha un potere climalterante altissimo). Secondo alcuni studi recenti queste sono state finora sottostimate e, tenendo conto della loro reale entità, il gas potrebbe essere addirittura peggiore per il clima del petrolio e del carbone.

Il grafico in alto, tratto dallo studio della Univesity of California, a sinistra mostra con le linee strette l’ipotesi in cui le fughe di gas in atmosfera siano in media dell’1,5% della produzione e con l’area ombreggiata un range di fughe in atmosfera dallo 0 al 3%; l’istogramma a destra rappresenta con le colonne le emissioni che si avrebbero con fughe dell’1,5% e con i “baffi” neri le variazioni che sia avrebbero con un range di fughe dello 0-3%. Da notare che, secondo alcuni studi, nel caso dello shale gas oltre il 4% del metano estratto andrebbe in atmosfera.

Insomma, se consideriamo la migliore delle ipotesi, l’abbondanza di gas a buon mercato sarebbe sostanzialmente irrilevante nell’abbattere le emissioni, mentre in alcuni casi (scenario no-policy e fughe in atmosfera vicine al 3%) sarebbe addirittura controproducente. Solo con politiche decise di promozione delle rinnovabili il gas potrebbe dare un contributo significativo.

C’è da fare una ulteriore valutazione. L’uso massiccio di gas da scisti negli States ha certamente ridotto il consumo domestico di carbone, ma ne ha aumentato l’export. Da un punto di vista del global warming, quindi su scala planetaria, l’impatto sul clima di questo shift energetico statunitense potrebbe essere anche peggiore, anche in considerazione del fatto che non è dato sapere in quali centrali questo combustibile fossile verrà utilizzato una volta sul mercato di destinazione.

Lo studio: The effect of natural gas supply on US renewable energy and CO2 emissions, C Shearer et al 2014 Environ. Res. Lett. 9 (pdf)

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