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Cina vicino al picco dei consumi: il carbone è una barca che sta affondando?

Pechino vuole disintossicarsi dal carbone e la crescita della domanda cinese, che pesa per metà di quella mondiale, potrebbe fermarsi prima del 2016. Andiamo verso uno scenario di oversupply che renderà antieconomici gran parte degli investimenti in questa fonte. L'avvertimento in un nuovo report di Carbon Tracker Initiative. Una buona notizia per il clima?

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Un futuro nero per il carbone. La domanda del maggior consumatore al mondo, la Cina, potrebbe smettere di crescere molto prima di quanto ci si aspettasse: entro il 2016. Questo, assieme alle politiche per ridurre le emissioni in diversi mercati e alla concorrenza del gas e delle rinnovabili, porterà ad una situazione di oversupply. Conseguenza? Gran parte degli investimenti in carbone previsti non si ripagheranno.

Da Carbon Tracker Initiative (CTI) arriva l’ennesimo avvertimento agli investitori sulla cosiddetta bolla del carbonio, cioè il rischio che con la transizione energetica in atto gran parte degli asset fossili si rivelino nei prossimi anni poco più che carta straccia, con conseguenze disastrose a livello economico.

L’ultimo report della Ong inglese specializzata nell’analizzare i mercati delle fossili (allegato in basso) è appunto dedicato al carbone. La conclusione dà speranza al fine della riduzione dei gas serra e dovrebbe far riflettere chi ancora sta investendo in carbone. Stando allo scenario previsto, il calo della domanda porterà a prezzi tali da rendere fallimentari gran parte degli investimenti in questa fonte: nei paesi produttori di cui si occupa il report sono in ballo 112 miliardi di dollari di investimenti in progetti che non saranno redditizi con i prezzi previsti.

A far prevedere un futuro fosco per chi estrae e vende carbone è soprattutto quanto sta accadendo in Cina, nazione che conta sul carbone per circa l’80% del suo fabbisogno elettrico, per circa il 70% del suo fabbisogno energetico totale e che assorbe circa la metà della produzione mondiale. Oltre alla questione clima, il carbone sta dando grossi problemi al gigante asiatico per i suoi impatti sanitari e ambientali. Le esternalità negative legate a questa fonte già nel 2007 (secondo uno studio di Greenpeace) erano pari al 7% del Pil cinese e l’inquinamento atmosferico, legato in massima parte proprio al carbone, ogni anno causa danni sanitari pari all’11% del Pil  (ricorda l’ultimo report IRENA).

Proprio per questo Pechino sta da tempo cercando di disintossicarsi: ultime misure sono il bando disposto sulle qualità di carbone più inquinanti e sull’uso di questa fonte in vaste aree del Paese, ma in generale la Cina sta cercando di disaccoppiare la sua crescita economica da emissioni e consumo di carbone, anche con investimenti massicci in rinnovabili.

Una politica che sta avendo successo. Ad agosto 2014 l’import di carbone cinese per la prima volta è sceso (del 19% anno su anno) e i consumi, dopo anni di aumenti a due cifre, si sono arrestati: si veda il grafico a lato (da dati governativi cinesi) che mostra come i consumi cinesi di carbone siano ormai fondamentalmente stabili, mentre il Pil continua a salire. Sono ormai diversi gli analisti che prevedano che la domanda di carbone cinese raggiungerà il suo picco prima del 2016: Institute for Energy Economics and Financial Analysis, Deutsche Bank, Bernstein e Morningstar.

Se l’appetito cinese per il carbone smetterà di aumentare o calerà, con la superpotenza che potrebbe trasformarsi addirittura in un “esportatore opportunistico”, l’impatto sul mercato sarà enorme. A sostenere la crescita della domanda potrebbe restare l’altro gigante asiatico, l’India, riguardo alla quale però CTI dubita che riesca a dotarsi delle infrastrutture necessarie all’import; tuttavia nel resto del mondo il destino del carbone è sostanzialmente segnato dall’inasprirsi delle politiche sulle emissioni e nei paesi OCSE la domanda sta già calando.

Ecco perché si prevede uno scenario di oversupply, cioè di eccesso di produzione rispetto alla domanda, che terrà bassi i prezzi. Dunque, se con i valori attuali (sui 54 $/ton) circa la metà del carbone prodotto nel 2014 – si legge nel report CTI – non riesce a ripagare nemmeno i costi variabili dell’estrazione e del trasporto, i produttori non potranno aspettarsi che i prezzi tornino ai livelli che li renderebbero sostenibili, cioè sopra i 100 $, come nel 2011-2012. Nei prossimi anni ad essere economicamente redditizi – secondo il report – saranno solo i progetti di estrazione per l’export che si ripagano con costi sotto ai 75 $/ton.

Tutto ciò espone una grande quantità di asset al rischio di una “esplosione della bolla del carbonio”: il 30% dei progetti di incremento della produzione da miniere esistenti e il 61% di quelli di nuove miniere saranno antieconomici. Questo significa che su 448 miliardi di dollari di investimenti in produzione di carbone, che potrebbero essere fatti da qui al 2025 nei paesi esportatori (Cina esclusa), ben 112 miliardi potrebbero rivelarsi stranded asset, cioè non ripagarsi. Se per gli investitori questo è un forte segnale d’allarme, per il clima la notizia potrebbe essere positiva: se quei 112 miliardi di investimenti in carbone non andassero a buon fine da qui al 2030, ciò si tradurrebbe in 42 miliardi di tonnellate di CO2 in meno emesse in atmosfera.

Il report CTI “Carbon Supply Cost Curves: Evaluating Financial Risk to Coal Capital Expenditures” (pdf)

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