La Tap tra luci e ombre

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Forse al via il gasdotto Trans Adriatic Pipeline (TAP) con l'Azerbaijan ma rimangono ancora diversi problemi irrisolti e nonostante i vantaggi in termini di sicurezza energetica e diversificazione delle fonti, specialmente per chiudere con il carbone, l'opposizione locale è ancora forte. E' giunta l'ora di introdurre, anche in Italia, il "dibattito pubblico" come in Francia.

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Infrastrutture. Parola alla quale il nostro Paese sembra aver sviluppato un’insana allergia, salvo accorgersi successivamente che sono indispensabili allo sviluppo, anche quello sostenibile. Se da un lato, infatti, la Tav in Val di Susa, il corridoio Tirrenico o l’autostrada Orte-Mestre appaiono dei relitti di un’epoca passata, il ‘no’ generalizzato sembra estendersi anche a opere utili, come l’adeguamento della rete di trasmissione elettrica e lo sviluppo dei porti.

Tra le questioni aperte ci sono anche quelle dei gasdotti e dei rigassificatori che incontrano opposizioni di non poco conto, anche se in passato si é arrivati a proporre cinque gasdotti e addirittura quindici rigassificatori. E ciò vale anche per la Trans Adriatic Pipeline (Tap), proposta da un consorzio tra la svizzera Axpo per il 42,5%, la norvegese Statoil per il 42,5% e la tedesca E.On con il 15%, che dovrebbe portare il gas naturale per 10-12 miliardi di metri cubi l’anno (eq. a 8,2-9,4 Mtep), incrementabili fino a 20 (eq. a 16,4 Mtep), dall’Azerbaijan all’Italia passando per la Grecia e l’Albania. Si tratta di un’opera che avrebbe due indubbi vantaggi a patto che la sua realizzazione avvenga all’interno di una politica energetica minimamente coerente.

Il Tap, infatti, inizierebbe a limitare in modo significativo la dipendenza da due aree geografiche ormai cronicamente instabili e pericolose come la Libia e l’Ucraina rafforzando la sicurezza energetica del nostro Paese che, è bene ricordarlo, ha consumato lo scorso anno 57,3 Mtep di gas importandone 50,7 Mtep (dati MiSE), dei quali 24,8 Mtep per gli usi civili.

L’altra grande questione è l’utilizzo del gas naturale come fonte fossile a medio impatto ambientale da utilizzarsi per la transizione alle rinnovabili sfruttando meglio gli oltre 21 GWe di potenza termoelettrica a ciclo combinato ampiamente sottoutilizzata, chiudendo contemporaneamente l’era del carbone in Italia, cosa che sarebbe salutata con gioia probabilmente dagli abitanti di Brindisi, per esempio, città che “ospita” la centrale termoelettrica a carbone Federico II, che per l’Agenzia europea dell’Ambiente è la 18a centrale più inquinante d’Europa e la prima in Italia (“Revealing the costs of air pollution from industrial facilities in Europe“, 2011).

Per non parlare dello sviluppo di massa della metanizzazione del parco automobilistico, che però allo stato attuale rimane, purtroppo, pura fantascienza. Sarebbe un vero atto di politica industriale vista la capillarità della rete metaniera italiana e la leadership delle nostre aziende sia sul fronte del retrofit delle auto a benzina con il metano, sia nella fornitura di impianti a gas per la prima installazione.

Eppure, nonostante questi vantaggi, il Tap, fino allo “sblocco” voluto nel luglio scorso dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che andrà in Azerbaijan tra pochi giorni, ha incontrato non poche difficoltà, dovute in gran parte alle opposizioni locali (oltre a quelle in Parlamento) frutto di una gestione per così dire approssimativa delle esperienze precedenti. La vicenda del rigassificatore di Brindisi si è trascinata per anni con una coda di polemiche, condita anche da vicende giudiziarie per presunte tangenti, per poi risolversi in un nulla di fatto con l’abbandono del progetto da parte di British Gas. Del resto non era pensabile che un impianto come il rigassificatore di British Gas insistesse su un territorio già fortemente provato sul fronte ambientale. E con Il Tap c’è il rischio che si imbocchi la stessa strada, visto che anche un’altra opera potrebbe occupare le coste pugliesi: il gasdotto di Edison che dovrebbe approdare a Otranto, mentre il Tap a Melendugno.

Per Legambiente la soluzione c’è ed è quella ipotizzata dall’associazione ambientalista nelle proprie osservazioni alla procedura di VIA della TAP. “Chiediamo alle istituzioni pubbliche di individuare, a partire dai progetti presentati o approvati che hanno ottenuto maggiore consenso, il punto di approdo dei gasdotti sul territorio pugliese”, afferma Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. “Così come avviene per la rete Snam, dove circola gas di diversi operatori, la stessa cosa può avvenire per la parte di tubo di attracco al territorio italiano. In questo modo si eliminerebbero le problematiche di consenso rispetto ai progetti di maggiore impatto e si potrebbe anche verificare quali di questi progetti sia realmente realizzabile”, ha spiegato Zanchini.

Cosa che viene ribadita anche a livello locale. “Ora la Puglia rischia di avere due gasdotti, uno a Melendugno e l’altro a Otranto – afferma, infatti, Francesco Tarantini, presidente di Legambiente Puglia – nonostante la riduzione del consumo di gas a livello nazionale e la profonda crisi delle centrali termoelettriche a ciclo combinato alimentate a metano. Legambiente è favorevole all’approdo di un solo gasdotto in Puglia e ritiene, in sede di rilascio dell’Autorizzazione Unica, necessaria la ricerca di soluzioni condivise tra istituzioni e politica, a livello locale, regionale e nazionale”.

Per dare un’idea delle dimensioni il Tap è lungo 870 chilometri, 547 in Grecia, 211 in Albania, 104 in Adriatico e solo 10 in Italia, mentre le tubazioni sono da 90 centimetri e saranno interrate ad una profondità minima di 1,5 metri. Il grosso problemi per quanto ci riguarda quindi risiede nel punto d’arrivo e nella Posidonia Oceanica che si trova a ridosso della nostra costa, problema sul quale il consorzio dei costruttori si dice disposto a realizzare il gasdotto passando al di sotto, con un tunnel di 45 chilometri, delle praterie di Posidonia.

Circa il vantaggio verso il territorio, secondo Nomisma Energia, la Tap dovrebbe incrementare il Pil regionale di circa 80 milioni di euro durante i quattro anni di costruzione, con la creazione di 150 posti di lavoro ogni anno, mentre a regime durante i 50 anni di vita dell’impianto i benefici, diretti e indiretti, per il Pil regionale dovrebbero essere di 12 milioni di euro e 250 posti di lavoro l’anno.

Cosa è mancato quindi alla Tap perché il progetto fosse accettato? Di sicuro la politica nazionale in passato non ha aiutato, mentre quella regionale ha oscillato, come al solito, tra indifferenza e inseguimento degli interessi elettorali del momento, mentre c’è da dire che la cultura ingegneristica dei proponenti non ha aiutato. Forse è venuta l’ora di proporre per le infrastrutture un sistema serio di “dibattito pubblico” come in Francia, governato da parti terze e attivato nella fase preliminare dei progetti che consenta decisioni chiare anche da parte della popolazione.

Le unità di misura sono state unificate dall’autore in data 11/9/2014

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