Economia a filiera corta, rinnovabili ed efficienza

La transizione verso la manifattura diffusa, che nel 2025 potrebbe valere 550 miliardi di dollari, favorirebbe una parallela diffusione della generazione di energia diffusa, con il conseguente potenziamento delle reti energetiche di distribuzione e delle microreti a livello locale. Un articolo di G.B. Zorzoli pubblicato sulla rivista QualEnergia.

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Se si voga controcorrente, si fatica di più e occorre un tempo maggiore per arrivare a destinazione. Alla lunga l’acido lattico accumulato nei muscoli può addirittura impedire di raggiungere la meta. Fuor di metafora, oggi sono in crescita gli ostacoli che intralciano lo sviluppo delle rinnovabili (FER) e, al di là degli omaggi di prammatica, anche l’incremento dell’efficienza energetica (EE). Incombono talmente su chi opera nei due settori, da concentrarne per intero l’attenzione e impedirgli di alzare lo sguardo oltre il proprio orticello, verso alcune tendenze allo stato nascente nei sistemi economici-produttivi, per molti aspetti omogenee con quelle che caratterizzano le FER e l’EE.

Se queste tendenze si affermassero in modo sufficientemente esteso, anche le prospettive dell’EE e delle FER sarebbero rafforzate in misura oggi difficilmente immaginabile. Di qui l’importanza di approfondirne le implicazioni e le potenziali sinergie.

Manifattura diffusa

La sproporzione fra poche grandi imprese e la miriade delle PMI è di solito considerata un’anomalia del sistema Italia. Potrebbe diventare il suo punto di forza. La metamorfosi dal modo tradizionale di generare informazione – centralizzato in giornali, radio, TV e gestito da professionisti, quindi strutturalmente top-down – a una produzione diffusa, dove gli attori sono double face, ora produttori, ora consumatori di opinioni e di notizie, è già nozione largamente condivisa; le divisioni, che non mancano, vertono sul giudizio che si dà del fenomeno in termini sia politico–culturali (maggiore informazione o informazione di qualità peggiore?), sia sociali (perdita di posti di lavoro, crescita del precariato). Il medesimo processo sta mettendo a rischio tutti i mestieri intellettuali di livello intermedio, soprattutto se basati su modelli replicabili. Così in America Turbo Tax, un programma informatico che compila automaticamente le dichiarazioni dei redditi e costa appena 39 dollari, sta riducendo il ricorso ai consulenti fiscali, diminuito del 17% in pochi anni.

Il fenomeno non investe soltanto le attività a rilevante contenuto intellettuale, direttamente soggette all’impatto dell’ITC. Anche per i manufatti tradizionali l’avvento delle stampanti 3D sta introducendo un’analoga rivoluzione, che ha già creato il suo neologismo. L’additive manufacturing (AM) non è più una curiosità, come i primi prototipi che sfornavano alcuni semplici prodotti di plastica. Le stampanti 3D possono ormai utilizzare materiali come il titanio e sono in grado di produrre componentistica pienamente funzionale, compresi meccanismi complessi: batterie, transistor, LED. La Boeing le usa per realizzare duecento parti di dieci differenti modelli di velivoli e aziende di prodotti medici se ne servono per la produzione di arti artificiali.

La transizione alla manifattura diffusa che, secondo una recente analisi della McKinsey (Daniel Cohen, Matthew Sargeant, Ken Somers, 3-D printing takes shape), nel 2025 potrebbe valere 550 miliardi di dollari, si dimostra particolarmente conveniente nelle produzioni a elevata incidenza di manodopera, ma sembra destinata a investire quasi tutti i settori industriali, che in misura crescente saranno pertanto costituiti da piccole unità sparse sul territorio. Molti dei prodotti di uso domestico – piatti, posate, bicchieri, ma anche lampadine e abiti – tenderanno a diventare produzioni artigianali, addirittura home made. D’altronde, già oggi si sta pensando di dotare strutture come gli aeroporti e gli ospedali di stampanti 3D per la produzione in loco dei pezzi di ricambio, sulla base del software venduto dalle aziende fornitrici delle relative macchine: pezzi che si realizzano solo quando servono.

Sempre secondo l’analisi della McKinsey, mentre nel 2011 solo il 25% del mercato dell’AM riguardava la manifattura diretta del prodotto finale, questa, con un tasso di crescita annuo del 60%, è attualmente il segmento caratterizzato dal massimo sviluppo. Con i costi in continuo calo, è praticamente scontato l’allargamento delle prestazioni delle stampanti 3D a nuove applicazioni. La transizione alla manifattura diffusa, indotta dall’AM, è il terreno di coltura ideale della parallela diffusione della generazione di energia diffusa, per alimentare le crescenti, in numero e in importanza, botteghe artigianali high tech, distribuite entro le città, con il conseguente potenziamento, anche qualitativo, delle reti energetiche di distribuzione e delle microreti a livello locale.

Un’altra conseguenza dell’AM sarà la drastica diminuzione del trasporto di prodotti finiti dalle grandi fabbriche ai centri di vendita e di qui ai consumatori. In misura crescente le materie prime e i semilavorati arriveranno direttamente alle manifatture locali, a loro volta limitrofe ai centri di consumo. 

Filiera corta

Economia circolare: questa la definizione scelta dall’AD di Philips, Frans van Houten, per descrivere un cambio di strategia dell’azienda, che sarebbe più appropriato definire “cambio di paradigma”. Alle imprese clienti Philips vende il servizio di illuminazione: pagano per la luce che utilizzano e Philips si preoccupa degli investimenti e dei rischi di una loro obsolescenza, provocati dall’entrata sul mercato di nuove tecnologie. Gli impianti vengono sostituiti quando è il momento appropriato per riciclare i materiali o riqualificarli per il riuso. Più recentemente il servizio è stato esteso alle aziende addette all’illuminazione pubblica. Quest’ultima viene automaticamente ridotta quando il traffico è modesto, viceversa è per esempio aumentata in occasione di partite di calcio in notturna. Queste innovazioni consentono risparmi di energia elettrica fra il 50% e il 70%.

Secondo Frans van Houten: “Il passaggio all’economia circolare impone a chi lavora in Philips un cambiamento di mentalità. Non possiamo più pensare in termini di prodotti progettati per essere scaricati sui clienti, dobbiamo concepirli in modo che siano riqualificabili, di facile manutenzione, e diventino la fonte da cui estrarre materiali e componenti riutilizzabili. Dobbiamo ragionare con un orizzonte temporale di quindici anni, non solo su ‘adesso’, il che richiede di analizzare l’intero ciclo del prodotto, coinvolgendo i nostri fornitori e i nostri venditori”.

Uso efficiente

Secondo gli studi “Remaking the industrial economy” (febbraio 2014) e “Are you ready for the resource revolution?” (marzo 2014), cofirmati da alti dirigenti della McKinsey, studi che contengono riferimenti a casi concreti di applicazione dell’economia circolare, solo così si può sperare di passare dall’attuale 1-2%/anno di aumento della produttività nell’uso delle risorse primarie al 50% ogni pochi anni; condizione necessaria per consentire di soddisfare la crescita della loro domanda da parte di miliardi di persone nei Paesi in via di sviluppo, senza rischiare rincari insostenibili nei prezzi.

In tal modo sarebbero possibili:

  • risparmi netti nell’uso di materiali, che potrebbero globalmente raggiungere 1.000 miliardi di dollari. Nella sola Unione Europea i risparmi annuali relativi a prodotti durevoli con una vita media moderata potrebbero essere di circa 630 miliardi di dollari. Il massimo beneficio si avrebbe nell’industria dei trasporti (200 miliardi $/anno);
  • minori rischi nell’approvvigionamento: l’economia circolare, applicata al consumo di acciaio nelle industrie dell’automobile, degli altri mezzi di trasporto e del macchinario per lavorazioni meccaniche, nel 2025 farebbe risparmiare annualmente fra 110 e 170 milioni di tonnellate di minerali ferrosi, riducendo la volatilità dei loro prezzi;
  • maggiori spinte all’innovazione: riprogettare materiali, sistemi e prodotti, in modo da utilizzarli in un ciclo chiuso, è un requisito fondamentale dell’economia circolare e rappresenta pertanto una gigantesca opportunità per innovare processi e prodotti, perfino nei settori normalmente considerati tecnologicamente maturi, come per esempio l’industria dei tappeti.

Si sta infine affermando una nuova generazione di robot, capaci di manipolare anche piccoli componenti elettronici, di prelevare e impacchettare singoli prodotti, che “imparano” direttamente dagli addetti agli impianti, senza bisogno di essere programmati da tecnici esperti. Questi robot, sempre più abili e a basso costo, capaci di eseguire un’ampia gamma di compiti finora affidati all’uomo, rappresentano un altro fattore favorevole all’ubicazione dell’attività manifatturiera in prossimità dei mercati a elevata domanda, anche se lì i salari sono più alti. In tal modo al vantaggio della vicinanza alla domanda si sommerà quello della prossimità a fornitori tendenzialmente più innovativi.

Questi trend prefigurano trasformazioni dei sistemi produttivi finalizzate a ridurre radicalmente la domanda di materie prime per unità di prodotto, anche attraverso il riciclo/riuso, che provocheranno un rilevante nextshoring, cioè il ritorno tendenziale delle produzioni in prossimità dei centri di consumo. Di qui un’ulteriore riduzione della domanda di energia nel settore dei trasporti, ma soprattutto nella trasformazione delle materie prime, che è prevalentemente effettuata in industrie energivore.

La biomimetica

Il modello dell’economia circolare non nasce in un vuoto pneumatico; quasi certamente la sua genesi è stata influenzata dal crescente interesse per la biomimetica, una nuova branca della tecnologia che si ispira alle soluzioni ‘inventate’ nel corso dei millenni all’interno della biosfera. Anche se qualsiasi tentativo di definire la tassonomia di un approccio scientifico così open corre il rischio di essere fuorviante, si possono grossolanamente identificare due principali filoni di sviluppo potenziale della biomimetica. Nel primo si parte dall’osservazione di un fenomeno biologico e si studia il modo per applicarne i meccanismi a un prodotto in grado di svolgere le stesse funzioni di uno già sul mercato, ma con impatto sull’ecosistema al limite nullo.

Per esempio, i mitili utilizzano una soluzione collosa per restare attaccati alle rocce anche in presenza di onde molto forti. L’analisi di questa resina ha consentito la produzione di una colla priva di formaldeide, che rappresenta una delle principali cause dell’inquinamento indoor.

Il secondo filone parte invece da un problema di progettazione e cerca nel mondo naturale una soluzione meno impattante di quelle disponibili sulla base delle conoscenze pregresse. Seguendo questo indirizzo, l’architetto Pearce studiò il sistema di ventilazione dei nidi delle termiti che, con alcuni accorgimenti ingegnosi, vi mantiene la temperatura pressoché costante nonostante il caldo torrido diurno e il fresco delle notti africane, e lo applicò all’Eastgate Centre di Harare, nello Zimbawe, ottenendo un consumo energetico pari al 10% di quello del migliore sistema di raffreddamento tradizionale.

Biomimetica ed economia circolare sembrano avere comuni ipotesi di lavoro, che si rifanno ai criteri che regolano gli ecosistemi naturali: in natura non esistono rifiuti, innanzi tutto perché di una risorsa si cerca di utilizzare il massimo possibile, in secondo luogo perché ciò che è scartato da un essere vivente lo utilizza qualcun altro. L’economia circolare si limita però alla conservazione delle risorse che utilizza, inevitabilmente mai al 100%. Viceversa la biomimetica non si limita a conservare le risorse: le rigenera mediante processi a cascata.

Riduzione della domanda

Secondo l’istituto di ricerca IHS: «Quali sono le prospettive per l’industria degli autoveicoli in un mondo in cui la popolazione esplode e le città si riempiono di nuovi residenti? Una cosa è certa: il futuro sarà molto diverso da come possiamo immaginarlo estrapolando il passato» (The future of urban mobility: Planning for disruptive change, 2014). Nel 2035 circa i due terzi della popolazione (cioè 6 miliardi di individui) vivranno in aree urbane. Oltre tutto la maggior parte delle città cresceranno preferenzialmente in verticale, per cui il numero di persone per unità di superficie aumenterà ancora di più. Se il tasso di motorizzazione continuasse a crescere ai tassi storici, il traffico urbano non sarebbe più gestibile. Già si avvertono i primi segnali del conseguente cambiamento globale (vedi immagine di seguito).

A lungo termine:

  • le congestioni del traffico, l’inquinamento, il costo dell’auto privata accentueranno l’utilizzo di modi di trasporto alternativi;
  • la mobilità “digitale” tenderà a sostituire la mobilità personale;
  • una cultura più sensibile ai valori ambientali porterà le giovani generazioni a privilegiare il car sharing;
  • nei Paesi sviluppati l’invecchiamento tendenziale della popolazione ridurrà il numero di spostamenti e la loro lunghezza.

Queste tendenze andranno a sommarsi alla minore necessità di utilizzare mezzi di trasporto, indotta dalla manifattura diffusa e dall’economia circolare. Sulla base di queste linee di tendenza, IHS ha elaborato gli scenari riportati nella figura di seguito.

Nello scenario ritenuto più realistico (new urban mobility), la domanda costante di automobili in presenza di veicoli più efficienti dovrebbe di per sé ridurre il consumo di carburanti. Se a ciò aggiungiamo l’apporto crescente dei biocarburanti e della mobilità elettrica, la domanda di benzina e gasolio avrà un trend costantemente negativo. È oggi impossibile definire con sufficiente precisione tempi e dimensioni dei cambiamenti qui delineati. Il fatto che siano previsti da top manager di grandi imprese multinazionali, da società di consulenza e di analisi non in odore di ambientalismo, e che esistano sinergie reciproche, gioca indubbiamente a favore di un loro successo. Questi sviluppi, caratterizzati da forti analogie con quelli dell’EE e alle FER, contribuiscono a estendere la cultura (la consapevolezza) dei vantaggi di uno sviluppo economico-produttivo:

  • più decentrato, anche perché spesso sitodipendente;
  • molto integrato orizzontalmente e verticalmente (processi a cascata);
  • dove il produttore spesso coincide col consumatore;
  • più attento all’uso delle risorse primarie;
  • dove quindi il consumatore tende a diventare un utilizzatore;
  • dove l’innovazione tecnologica tende a diventare biomimetica;
  • dove decresce la domanda di energia nei trasporti.

A parte le ovvie sinergie operative, l’EE e le FER ne trarranno vantaggio soprattutto in termini di accettazione da parte dei soggetti economici e dei cittadini, data la loro congruenza con la nuova cultura dello sviluppo, sottesa a questi trend.

L’articolo di G.B. Zorzoli pubblicato sul n.3/2014 della rivista bimestrale QualEnergia.

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