Spalma-incentivi, anche con le modifiche i dubbi sulla costituzionalità restano

Le modifiche alla norma contro gli impianti FV sopra i 200 kW introdotte al Senato sono state concepite per superare la manifesta incostituzionalità della versione del testo contenuta nel decreto. Ma falliscono nell'obiettivo conservando inalterata la retroattività e la mancata tutela del legittimo affidamento, spiega l'avvocato Wanda Mastrojanni.

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Il Senato ha approvato il testo della conversione in Legge del Decreto cosiddetto “Spalma Incentivi” che ora deve passare al vaglio della Camera. Il testo approvato al Senato prevede alcune modifiche al Decreto Legge; tuttavia i dubbi di incostituzionalità della normativa e di contrarietà al diritto comunitario permangono immutati.

Si introduce la previsione di una nuova opzione per gli operatori, che si aggiunge a quelle già previste nel Decreto Legge, e che sembra introdotta per salvaguardare “formalmente” la legittimità della normativa. Ispirata dalla stessa preoccupazione sembra la previsione di una sorta di cartolarizzazione degli incentivi (si veda qui, ndr). Si recepiscono, infine, le istanze che chiedevano uno scaglionamento delle riduzioni sul ventennio: la norma, però, è costruita in modo che il ‘costo’ del contenimento della riduzione degli incentivi per gli scaglioni più bassi, sia sopportato non dallo Stato ma dagli operatori con impianti di potenza nominale superiore ai 900 kW (che passano da una riduzione dell’8 a una del 9%).

Queste dunque le tre opzioni, tra le quali gli operatori devono sceglier entro il 30 novembre 2014: la spalmatura degli incentivi su 24 anni, con riduzione percentuale della tariffa incentivante (contenuto identico all’ipotesi prevista nel Decreto Legge); fermo il periodo ventennale, una rimodulazione percentuale degli incentivi secondo un meccanismo che vede, in un primo periodo, una riduzione percentuale, e in un secondo periodo, una maggiorazione nella stessa misura percentuale di cui alla precedente riduzione; fermo il periodo ventennale, una riduzione percentuale già definita e scaglionata in base alla quantità di energia prodotta (dal 5% al 9%).

La seconda opzione, che prevede un primo periodo temporale di riduzione dell’incentivo, seguita da un secondo periodo di maggiorazione nella medesima misura, sembra tradire la preoccupazione del legislatore di creare una “formale” (ma non sostanziale) situazione di equilibrio tra riduzione e maggiorazione. E’ bene evidenziare che basterebbe che una sola delle opzioni non avesse effetto retroattivo, per rendere legittimo l’intero complesso di norme. Se, infatti, l’operatore avesse l’opzione di scegliere almeno una ipotesi non lesiva, l’intera normativa passerebbe illesa al vaglio di incostituzionalità e violazione del diritto comunitario.

Tuttavia la norma, così come costruita, non sembra riuscire nell’obiettivo che pure apparentemente si pone. Invero la riduzione dell’incentivo nel primo periodo non è ammortizzata e compensata dalla maggiorazione nel secondo periodo, a causa, fra l’altro, del processo di invecchiamento cui è soggetto l’impianto e della riduzione dell’indice di produttività dello stesso.

L’effetto reale per l’operatore è l’immediata riduzione dell’incentivo, la quale impatta sul suo equilibrio finanziario e lede i suoi diritti quesiti. La promessa maggiorazione, invece, resta confinata in un futuro incerto e, pertanto, privo di effettivo significato economico: in questo orizzonte normativo (in cui la retroattività sembra lecita) nulla garantisce l’operatore dell’effettiva venuta ad esistenza della “promessa” maggiorazione.

Che poi la norma comporti e voglia comportare una riduzione complessiva delle tariffe incentivanti, è confermato dallo stesso legislatore, il quale prescrive che il meccanismo, la cui definizione è rimessa ad un futuro Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, consenta comunque un risparmio di almeno 600 milioni di euro nel periodo 2015/2019. Se c’è risparmio, c’è riduzione della tariffa incentivante.

Stesse censure e critiche possono muoversi anche alla norma di cui al comma 5 dell’art. 26. Si prevede che l’operatore possa accedere a finanziamenti bancari in qualche modo garantiti dalla Cassa Depositi e Prestiti. Tuttavia si rinvia ad un  Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze che preveda criteri e modalità dell’esposizione della Cassa Depositi e Prestiti. Orbene, in assenza e prima dell’emanazione del Decreto, la norma resta priva di contenuto. E la norma non stabilisce i termini entro il quale il Decreto debba essere emesso, con il rischio concreto che lo stesso non venga emanato. 

Anche questo meccanismo, restato invariato rispetto al Decreto Legge, sembra tradire l’intento di assicurare “formalmente” carattere di irretroattività alla norma. Se, infatti, lo Stato si facesse davvero carico della differenza tra l’incentivo già spettante al 31 dicembre 2014 e quello rimodulato dalla Legge di conversione, i diritti degli operatori sarebbero rispettati.

Sembra ispirato alle stesse preoccupazioni di salvare “formalmente” l’insieme normativo, anche la previsione di cui ai commi da 7 a 12 dell’art. 26, nei quali viene dettata la disciplina di una sorta di cartolarizzazione degli incentivi. La norma sembra favorire e facilitare sia la cessione degli incentivi sia il definitivo recesso degli operatori dai contratti stipulati con il GSE. In questo modo il legislatore vorrebbe dimostrare che all’operatore, che si lamentasse di essere stato leso, è stata data la possibilità di “liberarsi” di una situazione economica non più soddisfacente. Come se ciò equivalesse al rispetto delle sue aspettative e del suo legittimo affidamento, e negasse in nuce ogni lesione dei diritti dell’operatore.

Il legislatore, in sostanza, con il presente testo normativo, pare preordinarsi gli argomenti per difendersi negli eventuali (e probabili) giudizi di illegittimità della normativa. Non può non commentarsi che questo modo di legiferare viola il pactum fiduciae tra Stato e Cittadino

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