Sicurezza energetica: un’Europa in riserva con un conducente miope

La “Strategia europea per la sicurezza energetica” stilata dalla Commissione europea relega le rinnovabili a un ruolo marginale e continua a concentrarsi sulle fossili. L'esecutivo UE pensa alla CCS, al fracking e ad estrarre gas e petrolio in casa, nonostante recenti studi mostrino che le riserve domestiche non basterebbero che per qualche anno.

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I fatti dell’Ucraina hanno improvvisamente riportato al centro dell’attenzione la preoccupante dipendenza energetica dall’estero dell’Unione Europea. L’Europa produce localmente solo il 47% della propria energia, importando il 90% del petrolio, il 66% del gas e il 42% del carbone che consuma (importa anche il 100% dell’uranio, ma in quel caso la dipendenza è meno critica, per la differenziazione delle fonti e la sua altissima densità energetica).

La minaccia di Putin di bloccare le forniture di gas all’Ucraina (e quindi, di fatto, all’Europa, perché è dall’Ucraina che passa il 60% del metano russo verso di noi), ha fatto riemergere una vulnerabilità in realtà già nota fin dagli inverni del 2006 e 2009 quando, per altri contrasti fra Russia e Ucraina, le forniture erano state improvvisamente ridotte. La Russia fornisce all’Europa il 27% dei suoi consumi di metano, ma ci sono sei paesi, come i tre Baltici, che dipendono al 100% da quelle forniture e altri, come Polonia e Ungheria per l’80%. L’Italia, dopo la Germania, è il maggior importatore di gas russo, che copre un terzo dei nostri consumi, ma ne riceviamo anche un 10% dalla Libia, altro paese tutt’altro che stabile.

Anche se la dipendenza è maggiore per quanto riguarda il petrolio, la situazione del gas è particolarmente critica, perché questo combustibile viaggia soprattutto tramite gasdotti, che legano in modo rigido fornitori e clienti. E mentre il petrolio serve quasi solo ai trasporti, con il gas si produce buona parte dell’elettricità e del calore domestico e industriale europei: una sua mancanza bloccherebbe istantaneamente la vita di molte nazioni del continente. In questo quadro, sembra naturale che in molti paesi europei si stia levando la richiesta di sfruttare a fondo tutte le riserve di combustibili fossili presenti in Europa, per alleviarne la dipendenza.

In Italia, per esempio, ha fatto scalpore una intervista rilasciata a Il Messaggero da Romano Prodi, che ha invitato la sinistra a superare i vecchi tabù e perforare l’Adriatico a più non posso, per estrarne greggio e metano, prima che lo facciano i croati. Su quanto sia realistico puntare su una autarchia energetica da fonti fossili, però, è arrivato un rapporto del Global Sustainability Institute dell’inglese Anglia Ruskin University (allegato in basso) che esamina lo stato di varie risorse mondiali. Per quanto riguarda i combustibili fossili i ricercatori hanno fatto un calcolo molto semplice: hanno diviso le riserve conosciute di carbone, petrolio e metano dei vari paesi, per i consumi interni, evidenziando così “l’autonomia energetica” di ogni nazione.

Nelle mappe ricavate (ad esempio qui sotto quella per il gas a dati 2010), spicca la quasi sempre disastrosa situazione europea, che peggiora pure rapidamente passando dai dati del 2000 a quelli del 2010. Così, per esempio, si scopre che la Gran Bretagna, è rimasta con appena 5 anni di consumi di petrolio, 3 di gas e 4,5 di carbone. La Francia è messa molto peggio, con circa un anno per ogni combustibile. L’Italia sta solo poco meglio, con una riserva di tre anni di petrolio, un paio di anni di carbone (ma solo perché ne consumiamo molto poco) e meno di uno di gas. La Germania ha invece solo un anno di petrolio e gas autoctoni, ma almeno ha riserve di carbone per 250 anni, così come riserve abbondanti di carbone ha tutta l’Europa centrale e orientale, oltre che la Spagna (il rapporto riserve/consumi per il carbone europeo, è addirittura migliorato negli ultimi anni, per la diminuzione dei secondi).

Per quanto riguarda petrolio e gas, invece, gli unici “sceicchi europei” con decenni di autonomia, sono Norvegia e Danimarca, e, per il solo metano, l’Olanda. Per capire come il nostro continente sia messo male, basta confrontarci con i nostri diretti competitori: la Russia ha 100 anni di gas, 500 di carbone e 50 di petrolio. Mentre gli Usa e la Cina, se, restassero senza import, potrebbero resistere per secoli per quanto riguarda il carbone, una ventina di anni per il gas e un quinquennio per il petrolio.

E allora che si fa? Il 28 maggio la Commissione Europea ha diramato una comunicazione al Parlamento, diretta proprio ad illustrare la «European Energy Security Strategy», suddivisa in otto punti (allegata in basso). Le misure ipotizzate servono sia per il brevissimo periodo, per evitare non improbabili problemi nel corso del prossimo inverno a causa della situazione ucraina, sia in un’ottica più strategica per aumentare la futura sicurezza energetica. Se sulle prime misure immediate (aumento delle riserve e dell’import da fonti più sicure, come Norvegia o Algeria, e predisposizione di piani di solidarietà fra paesi europei), c’è poco da discutere, visti i tempi strettissimi, le misure “strategiche” suscitano diversi dubbi.

Nulla da dire sul punto tre, aumento dell’efficienza energetica: è una strategia win-win, che riduce la spaventosa bolletta energetica continentale (più di un miliardo di euro al giorno, nel 2013) e la dipendenza dall’estero, producendo anche lavoro. La Commissione stima in 371 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (sui 944 totali di import), i risparmi ottenibili solo raggiungendo l’obbiettivo 20-20-20. Per questo sono in corso investimenti continentali per 36 miliardi di euro. Poco da dire anche sulla necessità di integrare meglio i mercati europei del gas e dell’elettricità, creando normative standard e infrastrutture che favoriscano lo spostamento di energia da un capo all’altro del continente: servirà in caso di improvvise emergenze, ma anche per l’ordinaria amministrazione, per bilanciare, ad esempio, eccessi di produzione da nucleare o rinnovabili in una zona, con deficit in un altro. Sono 27 i progetti strategici per il gas e 6 per l’elettricità già in corso e saranno terminati entro il 2017. Scontati, ma non certo risolutivi, gli inviti a stimolare la ricerca e a parlare di energia all’estero con una voce sola, per aumentare la forza contrattuale.

Il resto del documento ha però ben poco di innovativo. Al punto 5 si consiglia di intensificare, anche semplificando le procedure autorizzative, la produzione interna di combustibili fossili e rinnovabili, che abbiamo già visto quanto possa contribuire … La Commissione sembra sperare anche molto nel fracking, che però è una tecnologia tecnologie dagli esiti incerti, sia per le difficoltà geologiche (si veda la brutta sorpresa del giacimento californiano di Monterey) che di accettazione sociale nelle nostre aree densamente abitate. Ma sembra credere anche nell’ossimoro del “carbone pulito” (tramite CCS, il sequestro della CO2 nel sottosuolo), tecnologia che per ora, dopo decenni di annunci, non è ancora partita, consigliando di finanziarne lo sviluppo.

Al punto 7 si consiglia di diversificare le fonti di idrocarburi. Questo può anche essere ragionevole, ma non è che risolva il problema di fondo: continua a farci dipendere da fonti via via più scarse e costose, limitandosi a spostare gli approvvigionamenti da A a B, ma lasciandoli soggetti a ricatti politici, rischio di interruzioni o sbalzi di prezzo. La diversificazione di cui si parla, poi, è soprattutto quella del gas (petrolio e carbone, già arrivano via nave), e questo significa la costruzione di più rigassificatori, infrastrutture che in Italia si sono mostrate “permeabili” a strane clausole che spostano il rischio di impresa sui cittadini. Farli in “emergenza approvvigionamenti”, sicuramente darebbe una forte spinta a introdurre “garanzie” per chi li costruisce, che rischiano, se poi il gas non si vende, di pesare per miliardi sui contribuenti. Curiosamente nel capitolo diversificazione, finiscono anche un invito a comprare nucleare europeo (che non sembra proprio il cuore del problema) e persino un appoggio al South Stream, altro gasdotto fra Russia ed Europa. Ma non dovevamo diversificare?

E le energie rinnovabili, fonti sicuramente autoctone e uniche, per ora, ad aver mostrato di essere installabili rapidamente in grandi quantità, e che già riducono la dipendenza da combustibili fossili di ben 30 miliardi di euro annui? La Commissione le liquida in uno striminzito capitoletto al capitolo 5, fra fracking e CCS, sintetizzato con un “Continuare l’installazione per raggiungere gli obbiettivi del 2020 (già in buona parte raggiunti, ndr), ma in un’ottica di mercato”, che si può tradurre in “dobbiamo citarle altrimenti qualcuno si arrabbia, ma limitiamoci al minimo sindacale e solo se non ci costano un euro in più”. Al 2030, bontà loro, sperano anche nell’aggiunta di un altro 7%! Nelle raccomandazioni finali, poi, la Commissione riesce a non nominarle neanche, come un parente povero e molesto, parlando solo di una generica “transition to a low carbon economy”, mettendole quindi insieme a risparmio, nucleare e CCS.

In sintesi, secondo il governo della UE, invece di proporre di tornare alla testa della transizione verso le rinnovabili, che proprio grazie alla nostra spinta iniziale sta ora iniziando in buona parte del mondo, dovremmo continuare per decenni o secoli (o almeno finché ce ne saranno) a dipendere da gas e petrolio importati, limitandoci per lo più a cambiare fornitori e far viaggiare meglio i combustibili per il continente. Oltre che devastare il territorio per spremerne le ultime gocce di gas e petrolio.

Una “visione priva di visione”, che ci si aspetterebbe da un ufficio studi di una qualche multinazionale petrolifera, non da chi dirige la prima potenza economica mondiale. E pensare che pochi giorni prima di questo documento, l’Epia, l’associazione europea delle rinnovabili, aveva scritto una lettera a Josè Manuel Barroso, il presidente della Commissione, ricordandogli come sole, vento, mari, idroelettrico, biomasse e geotermia potrebbero facilmente ridurre di un ulteriore 30% la dipendenza europea dal gas estero entro il 2030, mentre il timido piano della Commissione per quella data, finirà per sfruttare questo potenziale per meno di un terzo. Evidentemente sono stati solo tempo e carta sprecati.

Il“Global Resource Observatory” del Global Sustainability Institute dell’Anglia Ruskin University (pdf)

La“European Energy Security Strategy” della Commissione europea (pdf)

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