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Renzo Piano e il tetto verde di San Francisco

Tetto verde, sistemi di condizionamento naturali, soluzioni all'avanguardia: la costruzione che ospita la California Academy of Sciences di San Francisco, è stata definita “una macchina gentile per esplorare il rapporto tra edificio e natura”. In un dialogo con il figlio Carlo, giornalista, l'architetto Renzo Piano ci racconta come l'ha progettata.

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“Latitudine: 37.46°, longitudine: 122.26°. La visibilità è di 16,1 chilometri, l’arancione “internazionale” del Golden Gate Bridge brilla sopra lo stretto che collega l’Oceano Pacifico con la Baia di San Francisco. Il tempo è sereno, la temperatura di poco inferiore ai 6 °C, con una brezza a 5 nodi che spinge la mongolfiera verso Nord-Est. Sorvoliamo un grande prato verde, non sembra un edificio ma un pezzo del parco, del Golden Gate Park, con un po’ meno alberi e tanti cespugli. Da qui non distinguiamo nessun edificio, non si direbbe ma è proprio quella la nostra meta di oggi”.

In un dialogo con il figlio Carlo, giornalista, Renzo Piano ci racconta come è nato uno dei suoi edifici più famosi ed “ecologici”:  la California Academy of Sciences San Francisco, primo edificio importante che ha conquistato il livello Platinum nella certificazione LEED (Leadership in Energy and Environmental Design), un sistema basato su una quarantina di parametri che serve a misurare la sostenibilità.

Carlo Piano: Senza i capricci del clima di San Francisco, con le sue nebbie estive e i venti oceanici, un edificio come quello che abbiamo sotto gli occhi (ora si vede il tetto, è un prato con tre collinette che lo fanno assomigliare al dorso di un cammello e tanti oblò) non si sarebbe potuto neppure ipotizzare. Con una superficie di circa 125mila metri quadrati raggruppa in un’unica sede le 11 strutture (costruite tra il 1916 e il 1976) che già esistevano, e che erano state sconquassate dal terremoto del 1989. All’interno ci sono l’acquario Steinhart, il planetario Morrison, la foresta pluviale e il museo di storia naturale Kimball. In America, ma non solo, l’hanno definito il “museo più ecologico del mondo”. Ma è proprio così?

Reanzo Piano: Una macchina sofisticata, a zero consumi e zero emissioni… Questo secolo si è aperto all’insegna della consapevolezza che la Terra è fragile e va difesa. La crisi energetica e la tutela dell’ambiente sono emergenze mondiali, mi sembrava quindi giusto che la sede di una grande istituzione di scienze naturali diventasse simbolo di questa nuova sfida dell’architettura. Dobbiamo cimentarci con il problema e assumerci la responsabilità di risolverlo, gli architetti non possono tirarsi indietro.

(CP) A cominciare dal tetto che, con i suoi 20mila metri quadrati coperti da un tappeto vivente di piante, è una sorta di prato sospeso nel cuore del Golden Gate Park, dove l’Oceano Pacifico sfiora la città. Come se un lembo del parco fosse stato tagliato con un cutter e sollevato a circa dieci metri d’altezza per infilarci sotto le sale espositive. Se c’è un luogo dove ha senso costruire una copertura verde è proprio un museo di scienze naturali, no?

(RP) È metaforicamente un tetto che respira al ritmo della natura, anzi una porzione di parco che vola. Troppo spesso i musei sono luoghi dove si entra con un certo timore, ricordano il regno delle tenebre. Bui e con tante stanze dalle porte chiuse dove al visitatore è proibito accedere. Qui siamo nel mezzo di un giardino stupendo e sarebbe folle chiudersi dentro lasciando fuori la natura.

(CP) The Piazza, così è stata battezzata in puro italiano, è il punto di raccordo tra tutti i padiglioni che compongono il museo, dal Planetario ai laboratori di ricerca. Qui c’è una zona per le conferenze, per i concerti, ci sono sedie, tavolini, computer e un ristorante. La piazza è protetta da una vetrata sorretta da una delicata ragnatela d’acciaio. Sembra che tu l’abbia copiata da una vera.

(RP) Questa struttura reticolare è un’interpretazione della ragnatela, che di giorno lascia passare luce e aria, mentre di notte, quando la temperatura si abbassa e il freddo si fa sentire, si chiude grazie a una complessa copertura di tessuti. Pensa all’iride dell’occhio che si contrae in funzione della luminosità, più o meno è la stessa cosa. Comunque la mia prima passeggiata sul tetto del vecchio museo, immerso tra gli alberi e con le colline di San Francisco in lontananza, è stata fondamentale per il progetto: in quel momento mi sono reso conto che il tetto doveva volare sul parco.

(CP) L’idea era quella che il tetto fosse una continuazione dello stesso Golden Gate Park, ma forse per capire meglio bisogna fare un salto indietro nel tempo, fino alla metà dell’Ottocento, ai tempi della conquista del West. La California Academy nasce nel 1853 su un veliero che durante la bella stagione navigava nelle acque delle isole Galapagos (e talora fino in Madagascar) con a bordo esploratori e ricercatori che raccoglievano specie rare e sconosciute. Mentre in inverno attraccava nel porto di San Francisco e si trasformava in un’esposizione galleggiante. Sulla nave-museo aperta ai visitatori i ricercatori stessi diventavano educatori. Soltanto all’inizio del Novecento l’Academy ha messo radici sulla terraferma con i primi edifici nel Golden Gate Park, e da allora gli scienziati hanno raccolto venti milioni di specie vegetali e animali, un numero impressionante ma, tanto per capirci, appena il 5% di tutte quelle che esistono sulla Terra.

(RP) Durante la mia prima visita al museo il capo del Board, uno scienziato specialista in diatomee di nome Patrick Kociolek, mi ha portato lungo i corridoi infiniti del deposito dove erano custoditi questi venti milioni di specie. E mi ha spiegato che quelle mancanti, quelle di cui non si sa ancora niente, sono invisibili all’occhio umano o vivono negli abissi marini. Quanto mi ha detto mi ha molto colpito.

(CP) Un’altra cosa ti ha impressionato: il fatto che gli scienziati che facevano ricerca si trasformassero in insegnanti e parlassero delle loro scoperte nelle classroom…

(RP) Sì, e lo facevano senza prosopopea, senza farla troppo lunga. Per me questa è stata una delle ragioni d’interesse per il progetto: avere come interlocutori scienziati che si preoccupassero di stuzzicare la curiosità nei ragazzi.

(CP) I musei della scienza sono molto amati dai giovani e dai bambini, succede in tutto il mondo. Bisogna quindi trovare il modo più efficace per trasferire loro questa passione per la conoscenza della natura.

(RP) Sin dalle origini questo museo non è stato concepito come una vetrina, perché qui la dimensione dell’esplorazione e del viaggio ha sempre convissuto con quella della divulgazione. Anzi, direi che il termine museo sta stretto anche oggi a un’istituzione che resta dedicata alla ricerca, con centinaia di scienziati che lavorano a tempo pieno. Uno degli etologi che ho conosciuto è morto in Nuova Guinea qualche mese dopo per il morso di un nuovo tipo di cobra che aveva appena scoperto e voleva studiare. L’antidoto al suo veleno non era ancora stato inventato. Da subito ho avuto a che fare con questi studiosi, gente straordinaria disposta a rischiare la vita per svelare i misteri della natura.

(CP) Ti hanno aiutato nella realizzazione del museo? Nel capire come farlo?

(RP) Li ho ascoltati e mi hanno guidato nel progettare. Ho sentito parlare di specie vegetali native che non hanno nulla a che fare con la lussureggiante vegetazione che si vede viaggiando per la California, su quest’aspetto insistevano molto. I parchi sono stati invasi da piante d’importazione come le palme e gli eucalipti che riescono a sopravvivere solo perché si continua a pompare acqua dal sottosuolo. Anche il Golden Gate Park è così verde e bello perché l’intervento dell’uomo ha trasformato il suolo arido della Baia in un giardino, ma un giorno bisognerà pur smettere di prosciugare il sottosuolo. Ho capito che bisognava puntare su specie vegetali che potessero crescere con la semplice umidità del microclima di San Francisco.

(CP) Insomma, il progetto era costruire un museo delle scienze che fosse esso stesso oggetto di studio naturalistico, un contenitore che fosse anche contenuto. Duecento anni fa la flora della California era diversa e con il tetto del museo hai voluto restituire al parco, o almeno a questa fetta di parco, la sua vera identità. Come se la natura gettasse la maschera. Tanto che il giorno dell’inaugurazione dell’Academy, avvenuta un mese prima delle elezioni che segneranno la fine dell’era Bush e l’inizio di quella di Barack Obama (anche questo è indicativo), un giovane indiano che era il pro-pronipote del proprietario di questo terreno ne ha fatto simbolicamente dono alla città di San Francisco, spiegando che era felice perché era stato ricreato l’ultimo pezzo di “native California” che si potesse vedere nel giro di centinaia di miglia. Dalle praterie del cielo forse anche i suoi avi stavano applaudendo.

(RP) La grande difficoltà è stata individuare le specie giuste per farne un tetto verde che respira e vive. In realtà non ho inventato nulla di nuovo, l’idea l’ho ripresa dalle case tradizionali delle nostre campagne che hanno mura spesse. Lo strato di vegetazione e la massa di terra sopra il tetto accumulano umidità di notte e durante il giorno la restituiscono. Un isolante termico naturale contro il calore del sole. Siamo partiti con il piede giusto dal punto di vista energetico tanto da riuscire a fare a meno di un impianto di aria condizionata.

(CP) Quasi un sacrilegio negli Stati Uniti, dove il gelo dei condizionatori è in agguato dietro ogni porta. Qui a rinfrescare l’ambiente ci pensa la brezza che sale dall’oceano, e la forma stessa dell’edificio serve a incanalarla e a distribuirla. Come funziona?

(RP) Sono sempre andato in barca a vela, ho sempre armeggiato con il fiocco e la randa, quindi so come si può accelerare una brezza modificando le superfici che incontra: le collinette sul tetto sollecitano il vento in modo che scorra verso la piazza, refrigerando e ventilando gli ambienti dell’Academy.

(CP) Si tratta, infatti, del primo edificio importante che ha conquistato il livello Platinum nella certificazione LEED (Leadership in Energy and Environmental Design), un sistema basato su una quarantina di parametri che serve a misurare la sostenibilità. Dai materiali usati al consumo di energia fino ai livelli d’inquinamento. Il 95% delle strutture metalliche utilizza materiali riciclati e gli scarti dei jeans sono stati impiegati come isolante (…) A parte gli scarti di lavorazione dei jeans, tutti i detriti dei vecchi edifici demoliti nel Golden Gate Park (9mila tonnellate di calcestruzzo e 12mila di acciaio) sono stati riciclati e riutilizzati. Così è stata notevolmente ridotta la quantità di rifiuti destinati alle discariche…

(RP) Ogni pilastro contiene due Cadillac. Qui non si butta via niente, come dice un antico proverbio genovese.

(CP) E sempre dalla cultura europea, che normalmente preferisce il recupero alla tabula rasa delle ruspe, deriva anche l’attenzione alle testimonianze storiche? Non tutti gli edifici che componevano la vecchia Academy, nonostante avessero riportato gravi danni durante il terremoto, sono stati demoliti per fare spazio al nuovo progetto. Restano il padiglione africano e quello del Nord America, oltre all’ingresso dell’acquario che è stato inglobato nel nuovo complesso.

(RP) Gli Stati Uniti sono un paese ancora giovane, quelle costruzioni rappresentavano il DNA della città, ho conosciuto persone che ci andavano da bambini, poi ci sono tornate ad accompagnare i figli e oggi, che sono nonni, ci portano i nipotini. Azzerare la memoria era sbagliato, non si strappano le pagine dei libri di storia.

(CP) Parliamo ancora un po’ del tetto verde. Solo per selezionare le piante adatte ci sono voluti cinque anni di lavoro gomito a gomito con i botanici dell’Academy. Si è partiti da trenta graminacee per arrivare a sceglierne quattro specie principali. Raccontami com’è andata…

(RP) Abbiamo trovato un terreno a una ventina di miglia dal parco del Golden Gate che aveva la stessa esposizione del nostro tetto e un identico microclima e lì abbiamo fatto i test sulle essenze che sarebbero state utilizzate. Tutte le settimane gli scienziati andavano a controllare e compilavano un rapporto, alla fine abbiamo individuato le quattro graminacee che meglio sopravvivevano senza bisogno di essere innaffiate e concimate. A queste piante è sufficiente l’umidità della notte e delle brume del mattino: era molto importante rispettare la natura della California e non ricorrere a sistemi d’irrigazione artificiale. Quindi abbiamo ricoperto il tetto con un milione e 700mila piantine contenute in 50mila vassoi in fibra di cocco, un materiale biodegradabile che nel giro di un anno sparisce e diventa terra.

(CP) Fare un tetto del genere non deve essere stata un’impresa semplice, anzi ha comportato grossi problemi, vero?

(RP) Diciamo pure che è stata la parte più difficile del progetto. La copertura, che è costituita da più strati, ha uno spessore complessivo di 60 centimetri. Partendo dal basso, ci sono i pannelli fonoassorbenti, l’isolamento termico, la struttura protetta dal rischio incendio, l’impermeabilizzazione, una coltre difensiva contro le radici delle piante che sono micidiali nel bucare le guaine, poi delle gabbie e sopra i vassoi di cocco con dentro terra e arbusti. Si tratta di un procedimento molto complesso e questo spiega perché, in genere, i tetti verdi non funzionano. Ma all’interno del Golden Gate Park la situazione microclimatica è particolarmente favorevole. La natura si può addomesticare, ma solo a patto che il contesto sia adatto.

(CP) E il clima di San Francisco, com’è scritto nel tuo foglietto spiegazzato, lo è?

(RP) Sì, lo è. La massa del tetto, per metà organica, assorbe l’umidità per poi restituirla. Un po’ come quando d’estate ci si bagna la testa per non soffrire il caldo, e si sta bene finché resta umida. Inoltre terra e piante ci mettono parecchio tempo a scaldarsi, così dal sorgere del sole si arriva alle 5 del pomeriggio prima che il calore penetri all’interno, poi ci pensa il fresco della sera a mantenere bassa la temperatura. Pregi dell’inerzia termica.

(CP) Però il tetto verde della California Academy of Sciences non è solo piante native e terra. Lungo i bordi esterni, dove sconfina verso il parco che lo circonda, sono stati installati mille metri quadrati di pannelli solari. Sessantamila cellule fotovoltaiche, foglioline di cristallo che catturano la forza del sole e creano ombra oltre il perimetro dei muri. Sembra di stare sotto un albero, la luce è vibrante, ma soprattutto queste celle fotovoltaiche coprono più del 5% del fabbisogno energetico dell’edificio. Sono contenute tra due lastre di vetro a pannelli che compongono una copertura trasparente posta a contorno del tetto verde, che protegge i visitatori dalla pioggia e dal vento. Il resto dell’energia è fornito dalla geotermia, l’acqua arriva direttamente dall’oceano: d’inverno viene prelevata a 15 °C e restituita a 11-12 °C, mentre d’estate torna al mare a una temperatura di 18-19 °C in modo da sfruttare il differenziale termico. Mi sono informato bene? 

(RP) Bene, ma voglio dirti che chi entra nell’Academy diventa Robinson Crusoe, gli sembra di scoprire il mondo come se fosse il primo abitante della Terra. Ci sono 20 milioni di specie, l’acquario, il planetario a cristalli liquidi. La natura è la regina assoluta, anche dell’edificio che diventa portatore del messaggio.

(CP) C’è anche un po’ di utopia in questo progetto?

(RP) L’utopia è il sogno di cambiare il mondo, ed è bene che ci sia. Credo che questo museo rappresenti la ricerca di un linguaggio che ci appartenga, che appartenga a questo nostro tempo. Come ha scritto un critico del Guardian, è una macchina gentile per esplorare il rapporto tra un edificio e la natura.

Questo articolo è tratto dal primo volume dell’opera “Almanacco dell’Architetto”, scritto in forma di dialogo tra Renzo Piano e il figlio Carlo , giornalista.
Tutto il materiale è coperto da copyright, la pubblicazione avviene per gentile concessione di Proctor Edizioni.
Per brevità abbiamo tagliato alcune parti del dialogo, la versione integrale di questom articolo, corredata da una scheda dell’edificio, è stata pubblicata sull’ultimo numero della rivista bimestrale QualEnergia: qui il pdf

 

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