La strategica filiera del biogas italiano

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Un'analisi a 360 gradi sulla filiera del biogas e sull'opportunità del suo sviluppo in Italia, come strategia di politica agricola e industriale. Ma la legislazione ha ancora notevoli ritardi. Un'intervista a Stefano Bozzetto, consigliere dell’European Biogas Association e imprenditore agricolo biogasista, pubblicata sull'ultimo numero della rivista Qualenergia.

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Stefano Bozzetto è un Consigliere dell’European Biogas Association e im-prenditore agricolo biogasista. A lui abbiamo chiesto di tracciarci un panorama del settore del biogas, una risorsa ancora poco sfruttata, utile alla competitività dell’agricoltura e a favorire la penetrazione di sole e vento con la generazione distribuita. E tutto ciò utilizzando sempre meno terra agricola.

C’è scetticismo circa la possibilità di produrre energia dalla Terra. C’è chi sostiene che farlo con i prodotti agricoli sottragga terreno e materie prime agli alimenti, in un mondo che ogni sera “aggiunge 200.000 persone a cena” e in cui la domanda di proteine animali è crescente. Cosa pensa di ciò?

«Lester Brown nel recente libro “Full Planet Empty Plates” ha teorizzato il rischio di un’imminente crisi alimentare del Pianeta. Brown ha scritto il suo libro durante la torrida estate del 2012, quando molti agricoltori nel Corn Belt – come nel Nord Est italiano – persero gran parte dei raccolti a causa della siccità. I prezzi del mais giunsero a livelli record e le riserve di cereali crollarono pericolosamente sotto i 90 giorni. Quest’anno i prezzi dei prodotti agricoli hanno raggiunto livelli così bassi che non si vedevano da tempo. L’indice FAO dei prodotti alimentari è tornato a livelli degli anni ‘90. La produzione cerealicola mondiale raggiungerà i massimi mai visti nella storia».

Le ragioni dell’allarme lanciato da Brown sono svanite nel nulla?

«Non credo, crescita della popolazione mondiale e soprattutto modifica della dieta delle popolazioni dei Paesi emergenti sono fatti ineludibili (figura 1). E per produrre un chilo di carne bovina necessitiamo di 6 volte più terra di quella necessaria a produrre un chilo di pollo. Non ci sono altre soluzioni per evitare la crisi alimentare incombente: produrre di più con lo stesso suolo agricolo, con meno combustibili fossili, esaltando la capacità dei sistemi agricoli nel catturare e sequestrare il carbonio dell’atmosfera.

E la digestione anaerobica è una parte di questa soluzione. Una tecnologia unica adattabile ai più diversi contesti sociali e agro ecologici in grado di rendere l’azienda agricola più indipendente dall’acquisto di materie prime extra aziendali e più competitiva producendo per più mercati. Nel Mali come in Italia».

E la disponibilità di terreni? Con il biogas utilizziamo colture che potrebbero essere impiegate per nutrire gli animali? E la commissione Ambiente del Parlamento europeo voleva escludere dai biocarburanti di nuova generazione quelli ottenuti da “land grown biomass” senza distinzione alcuna.

«Per fortuna al Parlamento europeo per ora è tutto finito nel nulla. Considerare tutti i biocarburanti alla stessa stregua indipendentemente dalla loro land, carbon e cost efficiency sarebbe stato come gettare il bambino e l’acqua sporca. Al giorno d’oggi parlare di efficienza energetica è scontato, l’argomento è noto, spesso condiviso e direi anche abbastanza praticato. Ma il tema dell’efficienza dell’uso del suolo agricolo non ha pari notorietà. Molti parlano di terreni agricoli come se ogni ettaro di terreno agricolo nel mondo fosse utilizzato con la stessa efficienza. Un ettaro a mais europeo produce 4 e più volte unità foraggiere di uno africano.

Lo stesso Parlamento europeo da un lato teorizza l’uso indiretto del suolo (la cosiddetta ILUC) causato dalla coltivazione delle biomasse per i biocarburanti, per contro promuove sistemi agricoli come l’agricoltura biologica meno efficienti nell’uso del suolo rispetto all’agricoltura convenzionale. Applicando fedelmente la teoria dell’ILUC, l’agricoltura biologica (a mio avviso la più sostenibile tra le forme attuali di agricoltura) inquinerebbe più del mais prodotto con concimi chimici in quanto meno produttiva per unità di superficie agricola utilizzata. La teoria pertanto appare in tutta la sua inconsistenza. Eppure al Parlamento europeo, e non solo, sono mesi che ne discutono. Ma se uno googla “iluc+biofuel” trova migliaia di pagine; se fa lo stesso con “iluc+organic agriculture” non trova nulla. E la terra agricola è sempre quella. È chiaro che un dibattito impostato in questo modo giova solo ai produttori di petrolio. Il tema centrale non è quindi l’uso del suolo ma l’efficienza nell’uso del suolo.

Oggi diremmo che l’obbiettivo è quello di un agricultural ecological intensification: cioè come produrre sempre di più con lo stesso suolo agricolo, ma nel contempo inquinando meno. In questo senso il biogas offre una possibilità unica di ammodernamento dei sistemi agricoli attuali. Oggi possiamo produrre biogas con molta meno terra di quanta ne serva per produrre biodiesel ed etanolo, almeno 4-5 volte in meno. E il processo di miglioramento della land efficiency è solo agli inizi. Possiamo produrre in Italia 10-12 miliardi di metri cubi di biometano all’anno sottraendo 400.000 ha di terreni alla produzione alimentare e foraggiera, senza intaccare minimamente la capacità delle nostre aziende di produrre per i mercati alimentari. Una superficie pari a quella che nel passato abbiamo destinato a riposo obbligatorio. Una superficie pari al 20% dei terreni agricoli abbandonati negli ultimi 20 anni in Italia a causa di cementificazione e abbandono, in un silenzio assordante.

Questo perché il biogas è in grado di utilizzare oltre a colture annuali (mais, barbabietola, ecc.) anche altre biomasse che oggi non costituiscono reddito per l’imprenditore agricolo (le cosiddette biomasse di integrazione): secondi raccolti, biomasse coltivate su terreni marginali, effluenti zootecnici, sottoprodotti agricoli e agroindustriali. Con il biogas sono le bioraffinerie che si adattano alle condizioni agro ecologiche e agli ordinamenti colturali locali, e non viceversa. E l’efficienza nell’uso del terreno del biogas che fa largo uso di biomasse di integrazione (il cosiddetto “biogas fatto bene”) è incomparabile rispetto quella di altre filiere. Già oggi ci sono impianti che non utilizzano più di 50/60 ha di terreni di primo raccolto per produrre 7-8 GWh di elettricità all’anno, 5-6 volte meno del terreno utilizzato dai primi impianti a biogas 4 anni orsono. Dobbiamo proseguire a stimolare l’innovazione in questa direzione, permettendo alle aziende agricole di produrre energia con meno suolo agricolo e nel contempo permettendo loro di continuare a fare, anche meglio, il loro mestiere nei mercati tradizionali».

In che senso? Molto spesso la critica al biogas è che, spinti dalle tariffe, gli agricoltori chiudono le stalle e destinano i terreni solo alle produzioni del digestore. Anzi si dice che i digestori creano competizione alle stalle vicine facendo lievitare i prezzi dei foraggi e degli affitti.

«Quando ci sono incentivi vi possono sempre essere fenomeni speculativi. Ma dobbiamo saper discernere: la crisi di molti settori zootecnici non è imputabile al biogas; quest’anno con la domanda massima di insilati da parte dei digestori i prezzi del mais sono più bassi di un anno orsono e gli allevatori approfitteranno di minori costi dei foraggi.

Ma ciò non è risolutivo per rendere reddituale la produzione di carne bovina in Pianura Padana, afflitta da bassi prezzi di vendita e lievitazione del costo dei ristalli. Anche per gli affitti alcune speculazioni hanno avuto vita breve. Ma in ogni caso ciò di cui abbiamo bisogno sono più digestori in aziende zootecniche, non meno digestori. Il digestore in un’azienda cambia completamente la prospettiva. E la ragione è economica prima ancora che ambientale e non ha nulla a che fare con gli incentivi. Il digestore innanzitutto permette di riprogettare il ciclo dei nutrienti in azienda: non poche aziende del Consorzio Italiano Biogas non utilizzano più concimi chimici nella coltivazione dei seminativi. Poi utilizzando il calore per essiccare i foraggi si riesce a utilizzare anche gli ultimi tagli di medica e meglio conservare quelli precoci di lolietto per poi produrre un buon raccolto di mais, quasi di primo raccolto. Presto si potrà utilizzare il biometano in meccanica agraria rinunciando al gasolio agricolo. Non è una visione autarchica dell’azienda agricola: è un modo concreto per incidere sul costo di alcuni dei fattori produttivi la cui volatilità negli ultimi anni ha reso il mestiere dell’imprenditore agricolo sempre più rischioso e meno attraente: la dipendenza dai concimi e carburanti derivati dagli idrocarburi.

Piani economici meno rischiosi rafforzano la capacità di investimento dell’azienda agricola: se i prezzi del mercato tengono, l’imprenditore agricolo biogasista non solo non chiude la stalla ma aumenta la mandria: 50 vacche da latte in più sono in letame circa 4 ton di mais in meno al giorno per il digestore, circa 200 € al giorno di risparmio. Le stalle vengono pagliate molto più di prima, con giovamento del benessere degli animali ma anche contribuendo a ridurre il fabbisogno di biomasse per il digestore. E in un anno come questo in cui la paglia non valeva quasi nulla, questo è un modo ottimale per valorizzare un sottoprodotto del frumento.

Infine, più letame e meno mais significa digestato più ricco in nutrienti e ulteriore possibilità di ridurre l’utilizzo di concimi chimici nei seminativi. Questo è il “biogas fatto bene”: produrre food feed e energy non è solo un’opportunità, ma diviene una necessità per ripensare la competitività della propria azienda anche nei mercati alimentari e foraggieri. Nelle aziende della Pianura Padana dove c’è biogas, mi auguro ci sia più coraggio nel mettere nuove bestie in stalla; ardimento che non proverrà da un particolare ottimismo sull’evoluzione dei prezzi dei quali non si vede segno tangibile di ripresa, ma da un rischio calcolato legato alla possibilità di ricavare un reddito anche dalla lettiera utilizzata nel digestore, dalla possibilità di controllare i costi dei fertilizzanti per produrre i foraggi e dalla possibilità di disporre, a fronte di ogni evenienza, di flussi monetari provenienti anche da altri mercati. E in futuro con il biometano anche il costo del gasolio agricolo potrà essere un costo sotto controllo».

Della multifunzionalità si è sempre fatto un gran parlare. Ma nessuno ha mai dimostrato una reale volontà di remunerare i servizi ambientali dell’agricoltura. Come mai?

«Per anni la multifunzionalità è stata intesa come rinuncia dell’imprenditore a operare sul mercato. Che diamine, un po’ di servizi vanno benissimo, soprattutto in un Paese che ha uno dei più bei paesaggi costruiti al mondo; la manutenzione dei beni comuni anche. Ma l’agricoltore è un imprenditore che trova la sua dignità se è in grado di operare sui mercati. Alcuni anni fa in Italia veniva pagato un aiuto agro ambientale per tenere coltivati i terreni durante l’inverno. Più i terreni sono scoperti minore è l’assorbimento dei nutrienti derivanti dalle concimazioni e quindi maggiori sono le emissioni in atmosfera per esempio di protossido di azoto e maggiore l’inquinamento dei corpi idrici. A tal fine la UE pagava all’agricoltore circa 300 €/ha se coltivava d’inverno un lolietto avendo l’obbligo in primavera di sovesciarlo, cioè di interrarlo. Oggi chi ha un digestore coltiva l’inverno un triticale per il digestore e poi a maggio semina una soia per il mercato e a ottobre porta in campagna il digestato per ripristinare la fertilità organica dei terreni. Tutto ciò senza l’aiuto delle tasse dei cittadini e senza obblighi cogenti: solo grazie al digestore, solo perché conviene.

Nella mia rotazione ideale attuale, rispetto a prima del digestore, la copertura dei terreni in tre anni è passata da 21 su 36 mesi, a 31 su 36 (figura 2). I vegetali captano più energia solare, utilizzano più nutrienti dei terreni, con grande vantaggio per la riduzione dell’inquinamento atmosferico e delle acque. In questo modo, permettendo alle aziende agricole di utilizzare le colture vegetali per produrre, oltre che alimenti e foraggi, anche energia e semilavorati per l’industria, il mercato remunera le funzioni ambientali dell’imprenditore agricolo: non con aiuti pagati con le tasse dei cittadini ma con uno stimolo a produrre biogas».

I costi di produzione del biogas sono elevati. Per quanti anni ancora i nuovi impianti avranno bisogno di incentivi? Solare e vento stanno riducendo i loro costi di produzione anche perché non necessitano di un combustibile e stanno rivoluzionando i mercati dell’energia.

«Il biogas agricolo italiano ha 3-4 anni di vita. È innegabile che senza la Tariffa Omnicomprensiva non sarebbe mai partito nulla. Ma oggi comprendiamo che potremo competere in questo decennio con un gas metano attorno a 40-50 €/MWht, forse anche meno. In ogni caso c’è un percorso da fare di innovazione tecnologica e di evoluzione dei business models. Per questo per alcuni anni ancora serviranno gli incentivi: per favorire gli investimenti e progredire in questa direzione “learning by doing”.

Ma la comparazione con il vento e il sole è mal posta. È chiaro che oggi solare e vento hanno ridotto il costo dei loro impianti e il costo del kWh prodotto, e quindi possono pensare a competere nel mercato anche senza incentivi alla produzione. Ma l’energia del biogas è un energia chimica, il sole e il vento producono elettroni. Se trasformiamo l’energia solare in energia chimica, mediante la produzione di idrogeno ovvero attraverso i solar fuels (cioè attraverso la trasformazione fotochimica diretta dell’energia solare in energia chimica), sole e vento faranno fatica nel breve periodo a raggiungere i costi di produzione del biogas. Ma per chi ha veramente a cuore il superamento della dipendenza dagli idrocarburi, l’opposizione solare/biogas è soprattutto fuorviante.

L’accoppiamento dei processi di fotosintesi clorofilliana e digestione anaerobica è infatti in assoluto uno degli strumenti più economici ed efficienti di cui oggi disponiamo per la cattura del carbonio atmosferico. Un impianto da 1 MWe a biogas utilizza annualmente circa 2.500 ton di carbonio contenuto nelle biomasse: 400 ton finiscono nel digestato a ripristinare la fertilità dei suoli unitamente alla biomassa lasciata sul campo (stoppie) e a quella prodotta dalla parte radicale; 2.000 ton finiscono nel biogas, di cui 1.200 ton sono carbonio contenuto nel metano che viene utilizzato per produrre energia mentre 800 ton sono CO2.

L’anidride carbonica del biogas nel processo di upgrading a biometano si rende disponibile praticamente a costo zero, e in ogni caso è molto meno costosa di quella ottenibile con sistemi industriali di depurazione dei fumi delle centrali termoelettriche. Inoltre, proprio perché disponibile in modo decentrato nel territorio, non richiede il trasporto su lunghe distanze ed è adatta a essere riutilizzata in loco come materia prima per la metanazione dell’idrogeno prodotto dal vento e dal sole, ovvero divenire materia prima per la produzione di semilavorati per l’industria, quali plastiche, ecc. Con la metanazione dell’idrogeno prodotto da sole e vento con il carbonio dell’anidride carbonica presente nel biogas, con la stessa quantità di terreni agricoli produrremo circa l’80% in più di metano e trasformeremo gli elettroni prodotti da sole e vento in un’energia chimica (il metano rinnovabile) trasportabile, conservabile e utilizzabile ove e quando più efficiente e remunerativo è il suo impiego.

La rete del gas in tal modo potrà esser utilizzata come una “batteria” per il long term energy storage dell’energia solare ed eolica in un sistema energetico decarbonizzato. La rete del gas è già disponibile e i costi di adattamento della rete elettrica saranno molto minori. È quanto anni orsono alcuni ricercatori del Fraunhofer Institute di Kassel hanno teorizzato e sperimentato. Oggi esistono oltre 20 impianti power to gas in Germania e in Europa, alcuni di essi realizzati da società come EON e Audi. Il potenziale del biometano e del metano rinnovabile in termini di riduzione delle emissioni di gas serra è incredibile. Ma molto ancora c’è da fare al fine di ridurre i costi di produzione (figura 3)».

Il digestore e l’azienda agricola come un sistema per catturare il carbonio dell’atmosfera senza chiedere contributi?

«Gli aiuti che stiamo chiedendo oggi sono quelli che sta pagando il consumatore elettrico e in un prossimo futuro l’automobilista per il biometano. È sicuro che ne avremo bisogno più a lungo di sole e vento, ma è importante che siano progressivamente ridotti per i nuovi investimenti. Ma soprattutto è decisivo che questi soldi siano spesi bene e che vengano ripagati in termini di minor inquinamento, riduzione del rischio dei cambiamenti climatici, stabilizzazione del costo dell’energia e, non ultimo, incremento dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani italiani. Dobbiamo comprendere infatti che gli aiuti alle rinnovabili, le tasse ambientali in generale, sono strumenti non solo di politica ambientale ed energetica, ma anche di politica agricola e industriale. Devono creare opportunità per nuove imprese e nuovi posti di lavoro.

In Germania nel 2011 la Green Economy generava l’11% del PIL, e dava lavoro a 1,3 milioni di lavoratori. Il biogas a questo riguardo ha tutte le carte in regola: può generare posti di lavoro sia in ambito agricolo che industriale, non solo in ambito energetico. Infatti il digestore in un’azienda agricola può essere visto come una piattaforma tecnologica con cui contribuiamo a creare imprese agricole più competitive, capaci di produrre non solo alimenti e foraggi ma anche energia, materiali e semi-lavorati per l’industria.

È il concetto della “biogas refinery” che il Consorzio Italiano Biogas ha proposto in un recente incontro. Con il digestore possiamo produrre, oltre all’energia elettrica, fertilizzanti rinnovabili organici e chimici; e biometano, cioè un combustibile che una volta immesso nella rete del gas può essere utilizzato in microcogeneratori per produrre in ambito locale elettricità quando non c’è il sole e il vento, immagazzinando nel contempo il calore. E il biometano può essere utilizzato anche nell’autotrazione come gas compresso, ovvero, soprattutto se trasformato in metano liquido, nei veicoli pesanti e nel trasporto marittimo. Ma di più con gli acidi grassi e la CO2 contenuti nel biogas, possiamo produrre semilavorati per l’industria, per esempio polimeri come i polidrossibutirrati che possono essere utilizzati per la produzione di bioplastiche, come i sacchetti della spesa, un tempo ottenuti dall’amido di mais.

Sono solo esempi, ma ci attendono evoluzioni interessanti in questo settore: ai prezzi attuali del mercato dei biopolimeri, il valore ricavabile dal biogas trasformato in PHB vale 1,4 volte il fatturato ricavabile con gli incentivi dell’elettrico. Produrre entrambi in futuro è la vera sfida. Altra filiera di interesse è quella della grass biorefinery, cioè dell’utilizzo degli erbai per la produzione di proteine foraggiere, semilavorati per l’industria e biomasse per il digestore. Un ettaro di erba medica contiene il doppio di proteine di un ettaro di soia con una composizione amminoacidica comparabile. Ma sono proteine di più difficile estrazione: mediante la crop fractionation, cioè la suddivisione del raccolto in più frazioni, è possibile immaginare in futuro di ottenere le proteine necessarie ai nostri allevamenti dall’erba dei nostri prati senza doverne importare (come farina di soia) oltre l’80% dal Sudamerica. E ciò che avanza dall’estrazione delle proteine utilizzarlo per il digestore senza ricorrere a biomasse coltivate su terreni agricoli. Fertilizzanti rinnovabili, proteine non dalla soia, essicazione dei foraggi, biometano per l’autotrazione, sono temi della biogas refinery che intersecano le voci centrali dei conti economici delle imprese agricole italiane. Per questo il biogas è una necessità e non solo un’opportunità per il rilancio dell’agricoltura italiana.

Il “biogas fatto bene” mantiene aperte le stalle: perché se non aggrediamo il costo dei fattori della produzione agricola italiana anche con l’aiuto delle tecnologie della biogas refinery, con i prezzi attuali di vendita dei prodotti le imprese continueranno a chiudere con buona pace dei difensori delle produzioni agricole tradizionali».

Ma quanto resta da fare per raggiungere questi obbiettivi?

«Il perseguimento delle tecnologie della “biogas refinery” necessita di investimenti in R&S e di una legislazione che aiuti a investire nei primi progetti dimostrativi. Costi di produzione, accettabilità dei prodotti sul mercato, ottimizzazione dei processi: molto resta da fare. Ma proprio per questo la politica degli incentivi per le rinnovabili deve essere utilizzata come strumento di Politica Industriale e Agricola. Per esempio sarebbe essenziale che, dopo l’approvazione della legge per il biometano che attendiamo da due anni, si potesse implementare la legge con uno specifico incentivo per la metanazione dell’idrogeno prodotto da sole e vento. L’industria italiana ne sarebbe avvantaggiata, sperimentando per prima le tecnologie per la produzione di idrogeno. Così pure gli incentivi dovrebbero andare anche alla produzione di biomateriali e biochemicals e non solo alla produzione di energia rinnovabile. Altrimenti nella chimica verde non investe nessuno mentre i posti di lavoro creabili con le tecnologie della bioraffineria sono molti di più di quelli della cogenerazione.

L’Italia ha una grande opportunità nelle tecnologie della “biogas refinery”: c’è alle spalle un’industria con un background incredibile capace di esportare nel mondo. Nel settore delle bioplastiche siamo tra i migliori. Nel settore delle auto a gas metano FIAT è tra i leader al mondo. Nella componentistica per la filiera delle auto a gas metano e nella meccanica agraria pure. Ma prima di tutto il Paese deve chiarire se la bioeconomia italiana si fa con il cippato del Canada, con gli scarti dell’industria dell’olio di palma indonesiano, con il mais rumeno, ovvero innanzitutto con le biomasse e i semilavorati prodotti dalle aziende agricole italiane. E il biogas è l’unica tecnologia in grado di permettere all’azienda agricola italiana di continuare a produrre meglio e più di prima prodotti alimentari di eccellenza, e nel contempo materie prime e semilavorati per il mercato dell’energia e della Chimica Verde.

Il biogas per capacità di adattarsi alle diete più disparate, per la possibilità di essere realizzato anche a piccola scala (1-4 milioni di litri di gasolio equivalente per impianto) e per la possibilità di incidere direttamente sulla competitività dell’azienda agricola, è la forma preferibile di bioenergia applicabile da noi. Sarebbe auspicabile quindi che il nostro Paese si liberasse di certi moralismi che giovano solo a coloro che vogliono il mantenimento dello status quo (mondo del fossile in primis) e che crescesse la consapevolezza che se utilizzeremo i prodotti agricoli per soddisfare più mercati, di ciò si avvantaggerà non solo l’agricoltura ma anche la manifattura e la società italiana tutta. È questo forse il principale insegnamento che ci viene dall’esperienza dei 1.000 impianti a biogas agricolo che oggi operano in Italia. A tal fine a Ecomondo abbiamo presentato un Manifesto per raccogliere adesioni attorno ai temi del “biogas fatto bene” a cui speriamo aderiranno non solo esponenti del mondo agricolo, ma anche dell’industria, della ricerca e dell’ambientalismo italiani».

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