E se per tagliare le bollette ci volesse la carbon tax?

Accantonati momentaneamente i bond per ridurre il peso della componente A3, si aprono nuovi fronti per ridurre la bolletta penalizzando fonti rinnovabili e generazione distribuita. E se invece si pensasse ad una carbon-tax su tutti i combustibili fossili? Sarebbe un provvedimento taglia-bollette con diversi vantaggi. Ma il dibattito in Italia è assente.

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Le perplessità del Tesoro sembrano aver portato, almeno per ora, ad accantonare l’emissione di titoli di debito per tagliare le bollette elettriche. Il mondo delle rinnovabili aveva accolto l’idea del ministro Zanonato con sostanziale favore, nell’auspicio che questo meccanismo battezzato “taglia-bollette” riducesse il rischio di interventi sugli schemi di incentivazione. Che la speranza fosse ben riposta è opinabile (vedi quanto scritto), ma è chiaro che ora la pressione sale.

Tre fronti sono già aperti – prezzi minimi garantiti, estensione facoltativa dei termini di incentivazione per alcuni impianti, limiti allo scambio sul posto – ma lo Sviluppo Economico deve ancora scoprire le carte sul tema più importante: l’imposizione di oneri tariffari sull’autoconsumo, peraltro invocata anche dagli operatori termoelettrici per finanziare la remunerazione della capacità, piuttosto che tagliare le bollette (si veda risposta MiSe a interrogazione sui SEU).

Andiamo dunque al cuore del problema, e scardiniamo un assunto fallace. Che l’autoproduzione dietro il contatore non sia soggetta ad oneri di rete e di sistema non è un’esenzione o un incentivo implicito: è semplicemente applicazione di un disegno tariffario che storicamente ripartisce la quasi totalità degli oneri in proporzione ai prelievi dalla rete. È d’altra parte chiaro che questa modalità di ripartizione non corrisponde alla natura dei costi che tali oneri vanno a coprire: si tratta infatti di costi in parte fissi (sviluppo ed esercizio delle reti) ovvero associati ad obiettivi di abbattimento delle emissioni (e quindi, seppure in via mediata, legati al volume di queste). Insomma, i driver di costo non sono né i volumi prelevati dalle utenze, né quelli consumati.

Il proposito dell’Autorità per l’energia di intervenire sulle modalità di ripartizione degli oneri di rete e di sistema è quindi fondato. Sbagliata è invece l’idea di ripartire gli oneri non con modalità coerenti con la natura dei costi, ma piuttosto in proporzione ai consumi (inclusi quelli coperti da autoproduzione): si sostituirebbe uno schema distorsivo con un altro schema distorsivo, ma stavolta penalizzante nei confronti della generazione distribuita da fonti rinnovabili.

Nel disegno dell’Autorità, un kilowattora di autoproduzione, irrilevante per la rete, parteciperebbe alla copertura dei costi di rete quanto uno prelevato dalla rete. Qual è la logica? E soprattutto: un kilowattora verde parteciperebbe alla copertura dei costi di decarbonizzazione quanto uno prodotto bruciando carbone o gas. Sarebbe assurdo sul piano politico e irrazionale su quello economico.

Se per i costi di rete la soluzione razionale, semplificando, sarebbe una ripartizione sulla base della potenza contrattuale in prelievo delle utenze, per i costi di incentivazione delle fonti rinnovabili sarebbe, chiaramente, la ripartizione sui volumi delle emissioni di anidride carbonica, vale a dire una carbon tax sugli usi diretti di combustibile.

Assumendo per pura semplicità di limitare la carbon tax al settore elettrico, essa eliminerebbe la componente A3 dalla bolletta a fronte di un forte incremento della componente energia (chi brucia carbone o gas dovrebbe infatti alzare i prezzi per coprire la carbon tax).

Con gli opportuni accorgimenti (fra cui una windfall tax sulle rinnovabili già incentivate, per sterilizzare la rendita impropria generata dall’incremento dei prezzi all’ingrosso), l’effetto netto per gli utenti sarebbe positivo, per due ragioni: primo, i produttori da combustibili carbon intensive non potrebbero scaricare tutta l’imposta sul prezzo di vendita, pena la perdita di quota di mercato a favore dei concorrenti carbon efficient; secondo, la carbon tax colpirebbe anche la generazione distribuita da fonti fossili, aumentando così la base imponibile (la cogenerazione sarebbe comunque avvantaggiata in quanto carbon efficient).

Nella realtà limitare la carbon tax al settore elettrico non avrebbe una logica economica, e i numeri in gioco sarebbero tali da allontanare il nostro mercato all’ingrosso da qualunque ipotesi di integrazione con le piazze europee. Il beneficio per gli utenti elettrici sarebbe invece maggiore di un ordine di grandezza se la carbon tax fosse dimensionata per finanziare tutte le forme di incentivazione (rinnovabili elettriche e termiche, efficienza) e fosse ripartita su tutti gli usi diretti di combustibile, traslando parzialmente su usi termici e trasporti uno sforzo che ad oggi ha pesato principalmente sulle utenze elettriche, mentre le esternalità positive sono diffuse.

In fin dei conti, anche la carbon tax sarebbe un provvedimento taglia-bollette, ma con un effetto redistributivo a carico dei combustibili climalteranti, invece che della prossima generazione di consumatori elettrici. In più, internalizzando nel prezzo all’ingrosso dell’energia i costi di decarbonizzazione, favorirebbe in modo economicamente razionale la generazione a gas rispetto a quella a carbone (al contrario del prospettato schema di capacity market), nonché il vettore elettrico (in generale più efficiente e pulito) rispetto all’utilizzo diretto dei combustibili fossili.

Sia chiaro: la carbon tax è un provvedimento complesso, con vincitori e vinti e importanti criticità. Ma che in Italia sia sostanzialmente assente dal dibattito di politica energetica, a fronte invece di una produzione continua di ipotesi estemporanee, è incomprensibile.

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