Tassare le importazioni per tagliare la CO2?

I paesi europei potrebbero imporre tasse sui beni importati in base alla CO2 incorporata negli stessi. La misura, di applicazione non facilissima e comunque non risolutiva, potrebbe essere però un'ottima soluzione transitoria in attesa di un adeguato accordo internazionale sul clima, spiega il Committee on Climate Change britannico.

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Una sorta di protezionismo a difesa del clima: paesi come quelli europei, che hanno obiettivi e politiche per contenere le emissioni di gas serra, potrebbero imporre tasse sui beni importati dal resto del mondo in base alla CO2 incorporata in questi. La misura, di applicazione non facilissima e comunque non risolutiva, potrebbe essere un’ottima soluzione transitoria per frenare l’aumento della concentrazione delle emissioni, fintanto che non si raggiungerà un adeguato accordo internazionale sul clima.

È questa una delle conclusioni a cui arriva uno studio degli effetti delle politiche anti global warming sulla competitività delle industrie domestiche pubblicato dal Committee on Climate Change britannico, l’ente governativo creato per analizzare come raggiungere l’obiettivo che la Gran Bretagna si è data per il 2050, cioè di ridurre le emissioni dell’80% rispetto ai livelli del 1990.

Negli ultimi 20 anni, mostra il report (allegato in basso) le emissioni del Regno Unito sono calate del 20%. Se però si conta la CO2 incorporata nei prodotti importati si vede che la carbon footprint britannica, lungi dal diminuire, è cresciuta del 10% (vedi grafico).

Il dato che mostra come l’impronta totale sia cresciuta soprattutto a causa della CO2 incorporata nei prodotti importati, potrebbe essere usato dalle lobby dell’industria nazionale per sostenere che la severa legislazione europea sulle emissioni non ha ottenuto altro che far scappare le produzioni più energivore verso paesi più permissivi in materia, con il risultato che le emissioni globali sono comunque aumentate.

Ma nella realtà non è stato proprio così, come ci mostra l’esempio inglese illustrato nel report: “la nostra analisi – si spiega – mostra che la delocalizzazione dell’industria ha avuto un impatto solo marginale nel ridurre la CO2 in patria e che se non si fossero messe in atto politiche ad hoc per ridurre le emissioni domestiche la carbon footprint totale del paese sarebbe aumentata ancora di più”.

Nel Regno Unito, infatti, le emissioni sono calate soprattutto per il passaggio dal carbone al gas nella produzione elettrica, per altre politiche orientate all’efficienza energetica e per la recessione. Ridurre l’impronta totale in termini di CO2, rileva lo studio, sarà però molto difficile se non si raggiunge un accordo mondiale sul clima. Ed è qui che entrerebbero in campo eventuali dazi sull’import dei beni che vanno commisurati alle emissioni di gas serra che i vari prodotti incorporano.

Una misura controversa, non risolutiva e di non facile applicazione: i dazi sull’import basati sulla CO2, infatti, si avverte, potrebbero essere contestati perché accusati di essere una mera forma di protezionismo, mentre dal punto di vista ambientale da soli non farebbero abbastanza, dato che solo il 25% delle emissioni mondiali è incorporata in beni scambiati nel commercio internazionale. Ma tassare la CO2 che passa le frontiere che è nei prodotti, si sostiene, potrebbe essere una  soluzione necessaria in attesa che tutti nel mondo inizino a fare la propria parte per fermare la crescita delle emissioni.

Il report (pdf)

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