I guai di chi disturba il manovratore. I casi Eni ed Enel

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Le battaglie legali e le esagerate richieste di risarcimento di Eni contro la trasmissione Rai 'Report' e di Enel contro Greenpaece Italia sono il sintomo di un potere energetico poco trasparente che, oltre a non rispondere mai del suo operato davanti all'opinione pubblica, vuole intimidire ogni forma di critica.

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Un classico caso di scuola italica: basta una critica o il mettere in discussione l’operato di una grande azienda che arriva puntuale la querela o la richiesta di risarcimento danni. Un modus operandi che il più delle volte ha il sapore dell’intimidazione. Le risposte, quelle reazioni di cui parliamo, sono quelle venute recentemente da Eni ed Enel.

Il primo caso è quello di Report, il programma di Milena Gabanelli, puntata di domenica 16 dicembre a cura di Paolo Mondani, dal titolo “Ritardi con Eni”. Per “l’incredibile attacco a Eni”, la multinazionale partecipata al 30% dallo Stato ha chiesto 25 milioni di euro di danni alla conduttrice. Avevamo parlato della trasmissione il giorno dopo (Qualenergia.it, L’Eni tra oscuri legami e interessi poco nazionali), evidenziando come avesse aperto numerosi interrogativi sulla nostra azienda energetica: una politica industriale poco razionale e scelte opache, interessi privati sullo sfondo e controllo dei giornalisti. Questioni molto delicate, ma che, in un paese civile, con una stampa più libera, sarebbero naturalmente sotto la lente degli osservatori e dei giornalisti, perché richiedono il massimo di trasparenza. Eni non ha invece voluto rispondere alle domande poste dal programma, bensì ha replicato con una causa civile richiedendo un risarcimento spropositato per danno all’immagine aziendale. Poiché una causa civile in Italia può andare avanti per anni, la strategia sembra quella di zittire ogni forma di critica o di dubbio sull’azione della multinazionale. Colpirne uno per educarne cento?

La compagnia, è bene ricordarlo, al momento è indagata per corruzione: tangenti all’Algeria per 197 milioni di euro e ha patteggiato nel 2012 con la Securities and Exchange Commission e il dipartimento di giustizia Usa per 365 milioni di dollari sempre per corruzione. “Questo sì che lede l’immagine di un’impresa controllato dallo Stato”, ha detto la giornalista Gabanelli in un’intervista di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, del 2 aprile.

Come scrive Stefano Corradino nel suo blog de ilfattoquotidiano.it siamo di fronte alla “cosiddette ‘querele temerarie’: se un’inchiesta giornalistica dà fastidio al potente di turno, politico, economico o religioso che sia, scatta la querela. Con richiesta milionaria di risarcimento. E così, il più delle volte, l’autore smette di proseguire il suo lavoro di documentazione intimorito dal procedimento legale”. Eppure il nostro codice penale prevederebbe anche una sanzione per chi procede con una lite strumentale o temeraria, che però nei fatti questa non viene mai applicata.

Restano intanto aperte molte questioni che Eni deve chiarire, sia alla politica che alla società civile: sui contratti a lungo termine con la Russia, sui prezzi del gas praticati alle compagnie elettriche, sui progetti in Val D’Agri come sugli altri progetti di estrazione di idrocarburi per l’Italia, sui suoi interessi nelle sabbie bituminose, sulle pratiche di gas flaring in Africa, sul perché gli stipendi per gli alti dirigenti, a cominciare dall’amministratore delegato Scaroni, siano così elevati. Gli azionisti italiani ed esteri sono veramente al corrente di tutto questo?

Poi ci sono le battaglie legali tra Enel e Greenpeace Italia. Domani, 5 aprile, l’associazione ambientalista comparirà in tribunale a Milano perché accusata (vedi ricorso) da Enel di uso illegittimo del suo marchio (è stata distribuita dagli attivisti una finta bolletta Enel). Il 19 aprile proseguirà invece il processo per le proteste di Greenpeace contro la centrale di Porto Tolle del 2006 e a fine maggio inizierà un processo contro alcuni attivisti di Greenpeace per un’azione non violenta tenutasi nel 2009 presso la centrale di Brindisi (l’impianto industriale più inquinante d’Italia). Infine, per fatti analoghi, avvenuti però presso la centrale di Civitavecchia, Greenpeace tornerà nuovamente in aula il 21 giugno.

Ci sono in corso inoltre due procedimenti penali per una denuncia fatta da Enel su un cortometraggio realizzato da Greenpeace in cui si denunciano, senza troppi veli, gli effetti dell’inquinamento causato dalle centrali a carbone, di cui abbiamo spesso parlato. Greenpeace accusa Enel (che oggi sta arrivando a coprire il 50% della sua produzione elettrica totale con il carbone) di provocare in Italia una morte prematura al giorno e di danni per 1,8 miliardi di euro l’anno. In riferimento a questi dati, va detto che un ricorso di Enel per diffamazione e danno di immagine contro Greenpeace è stato già respinto la scorsa estate dal Tribunale Civile di Roma perché le accuse erano basate essenzialmente su una ricerca scientifica internazionale.

Insomma, Enel sta tenendo sotto pressione l’associazione ambientalista, ma Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, ha comunque dichiarato, che non mollerà di un centimetro e continuerà nella sua denuncia.

Tutto ciò esigerebbe, secondo noi, un cambiamento negli attuali vertici delle due aziende, magari sotto la spinta degli azionisti o della politica per rimodellare le due grandi società energetiche italiane secondo gli interessi dei cittadini e, possibilmente, per avvicinarle a un modello energetico più sostenibile, cosa da cui al momento sono molto lontane.

Peccato che dalla nostra classe politica, almeno quella uscente, non possiamo aspettarci molto in questa fase. A parte i consolidati interessi della grande industria energetica, sappiamo che tra questa e la politica si è instaurato ormai da tempo un legame molto stretto, e di reciproco aiuto. Un connessione che alcuni hanno definito una sorta di “corruzione legale”. In tutto il mondo, inclusa l’Italia, membri dei governi e funzionari ministeriali esaurita la loro attività pubblica si ritrovano, a volte, ad avere collaborazioni o incarichi più o meno diretti nelle aziende energetiche di cui si sono occupati nella loro attività istituzionale. Insomma una sorta di “pagherò” che praticano alcune società energetiche, e che di fatto ostacola ogni cambiamento.  Per fortuna però crediamo che la società italiana attuale sia più avanti e speriamo più attenta a trovare nuovi strumenti di pressione nei confronti del potere energetico-politico-economico per rivendicare l’uscita da questo “pensiero unico energetico”.

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