BP, qual è il prezzo giusto del disastro?

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Gli Stati del Golfo del Messico hanno chiesto alla BP un risarcimento di 34 miliardi di dollari, ma per l'azienda si tratta di una cifra esagerata. Il petrolio disperso è ancora nell'ecosistema ed è presto per stimare i danni che si avranno sul lungo periodo. Le compagnie di estrazione sono di nuovo in fervente attività nel golfo, ma tecnologie e sistemi di sicurezza sono uguali a 20 anni fa.

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Poco meno di tre anni fa, quando 4,9 milioni di barili di petrolio fuoriuscirono dai pozzi di estrazione della BP (la compagnia contesta la cifra e parla invece di 3,2 milioni di barili) dopo l’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon, furono le coste degli Stati del Golfo a pagare il prezzo di una devastazione ambientale senza precedenti che si tradusse in pesanti perdite economiche per un’economia già debole. Oggi a pagare è la BP che tuttavia non condivide la valutazione del danno fatta dagli Stati colpiti che hanno chiesto un risarcimento di 34 miliardi di dollari. La cifra, secondo la BP, sarebbe stata calcolata con metodi “gravemente viziati, non supportati dalla normativa” e che “sovrastimano in modo sostanziale le rivendicazioni degli Stati”. In particolare l’azienda sostiene che non si possa provare che il disastro abbia provocato per gli Stati interessati una perdita in entrate fiscali, poiché la risposta della compagnia alla fuoriuscita avrebbe portato all’assunzione di 40.000 persone con un conseguente aumento di tasse pagate.

Il 25 febbraio, a New Orleans, è prevista un’udienza in cui il Dipartimento della giustizia, come parte del procedimento civile contro l’azienda, cercherà di ottenere il pagamento da parte della BP di una multa che potrebbe raggiungere i 20 miliardi. L’azienda ha finora fatto di tutto per evitare il processo, ma le richieste degli Stati del Golfo, che non sono incluse in quel procedimento, potrebbero rappresentare una complicazione. Se, infatti, la BP non dovesse riuscire a raggiungere un accordo con gli Stati, sarebbe difficile evitare il processo poiché l’azienda, che ha già sborsato 37 miliardi di $, è decisa a non superare la cifra di 42,2 miliardi di dollari messa in conto per coprire tutte le richieste di risarcimento.

All’indomani del disastro, il Congresso approvò il Restore Act che stabilisce che l’80% di tutte le sanzioni civili e amministrative pagate al Gulf Coast Restoration Trust Fund dai soggetti responsabili della fuoriuscita di petrolio debba essere utilizzato per il ripristino degli ecosistemi, la ripresa economica e la promozione del turismo nella regione del Golfo. Ma gli Stati che stanno ancora pagando il prezzo di quel disastro, ritengono che quei fondi non siano sufficienti e sembrano decisi a mantenere la linea dura sulle compensazioni. La Louisiana, in particolare, non è pronta a trattare sulle proprie risorse naturali e molti osservatori ritengono che sarà proprio questo Stato a rappresentare il maggiore ostacolo a un accordo.

La maggiore preoccupazione degli Stati del golfo e degli esperti che stanno monitorando la zona sembra essere la difficoltà nel quantificare il danno sul lungo periodo. Al momento, infatti, è difficile stabilire quali saranno e quanto dureranno le conseguenze sull’ecosistema. “Il petrolio è sicuramente ancora presente nell’ecosistema – spiega a QualEnergia.it Aaron Viles, vicedirettore del Gulf Restoration Network di New Orleans, Louisiana – Molto di quello che resta si è sedimentato sui fondali del Golfo in un’area che si stima sia grande come la città di Houston e non si sta degradando alla velocità che avevano previsto. Di conseguenza in alcune aree è ancora visibile un impatto sull’ecosistema marino e specie come il gulf killifish (Fundulus grandis) stanno sviluppando deformazioni e una certa debolezza riproduttiva. Questi sono impatti che non sono immediatamente visibili perché non uccidono i pesci ma li rendono più fragili e vulnerabili ad altri fattori di stress ambientale, finendo per indebolire l’intera specie”.

È quindi ancora troppo presto per stimare il danno complessivo poiché, come dimostrano precedenti disastri petroliferi (per esempio quello della Exxon Valdez in Alaska), gli impatti sulla popolazione di pesci e quindi anche sulla pesca possono raggiungere l’apice a distanza di diversi anni. “Inoltre ci sono zone in cui il petrolio è ancora visibile e spesso basta una tempesta per riportare il petrolio sulle spiagge e nelle paludi – continua Viles – Il sistema costiero è un sistema dinamico e va detto che il disastro della BP e, prima, l’uragano Katrina hanno colpito un ecosistema già debole che era al collasso da diversi anni”.

Difficile dire se i soldi della BP basteranno a salvare questo habitat, ma di certo per il futuro servirebbe una pianificazione delle attività industriali che tenga conto delle delicatezza del sistema. Al momento, però, non sembra questa la direzione in cui sta andando l’economia del Golfo del Messico.  “Le compagnie di estrazione di petrolio e gas sono di nuovo in piena attività nel golfo del Messico, ma poco o niente è cambiato in termini di tecnologie sia per ciò che riguarda la risposta a eventuali fuoriuscite e la capacità di raccogliere il petrolio versato, sia per quanto riguarda l’estrazione – continua Aaron Viles – La Bp ha firmato degli accordi con il Governo impegnandosi a svolgere il suo lavoro con più attenzione, ma altre compagnie non hanno nulla del genere”. “L’Environmental Protection Agency – conclude Viles – non è andata avanti con l’imposizione di nuovi standard per tecnologie più pulite. E così siamo nella stessa situazione in cui eravamo nel ’89 quando ci fu il disastro della Exxon Valdez e si iniziò a parlare di sviluppare tecnologie più sicure e meno inquinanti perché quelle che stavano utilizzando in Alaska non erano poi tanto efficienti. Ma quelle erano in sostanza le stesse tecnologie che, più di 20 anni dopo, si usano ancora qui nel Golfo. Non stiamo imparando niente dal passato e questo è offensivo”.

Il disastro della BP ha certamente portato una maggiore consapevolezza nell’opinione pubblica sui rischi di un’economia basata sul petrolio, ma la gente da queste parti vive su quell’economia e trovare un’alternativa non è sempre semplice. Per ora, visto che il danno è stato fatto e va riparato, si sta creando un’economia intorno al recupero ambientale: secondo studi citati dal Gulf Restoration Network ogni milione di dollari investito nel ripristino dell’ecosistema crea tra i 17 e i 36 posti di lavoro. E’ triste affermarlo, ma per le comunità locali il disastro può, in parte, diventare business.

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