Che relazione c’è tra attività estrattive e terremoti in Italia?

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Per Franco Ortolani, professore di geologia, in un territorio sismico come quello italiano c'è un forte rischio di terremoti legato alle estrazioni di gas e petrolio perché si vengono a destabilizzare le centinaia di faglie presenti nel sottosuolo. Per Claudio Chiarabba (Ingv) tali attività potrebbero anticipare le scosse che comunque si avrebbero nel tempo.

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«Stiamo giocando con il fuoco». Franco Ortolani, professore di geologia all’Università Federico II di Napoli, non usa mezzi termini nel descrivere il rischio che si corre a effettuare estrazioni di gas e petrolio in un territorio altamente sismico come quello italiano. L’allarme che Ortolani, con altri colleghi, sta cercando di divulgare ormai da mesi, partecipando a convegni e rilasciando interviste, diventa di stretta attualità ora che la nuova Strategia Energetica Nazionale, in fase di ultimazione al Ministero dello Sviluppo Economico, indica come una delle priorità del Paese il raddoppio della produzione di idrocarburi, da raggiungere anche abbattendo gli ostacoli normativi che impediscono alle compagnie petrolifere di fare ricerca ed effettuare perforazioni ovunque ritengano esistano giacimenti di gas e greggio.

«Ma l’Italia non è un Paese a bassa sismicità, come la maggior parte di quelli petroliferi» spiega Ortolani. «Il nostro territorio è attraversato da centinaia di faglie in grado di scatenare terremoti, l’ultima cosa che ci serve è destabilizzarle, estraendo o introducendo fluidi in profondità». Ma in che modo attività estrattive, che avvengono in genere entro i primi 5 chilometri di profondità, possono influenzare il movimento di faglie tettoniche che normalmente sono molto più in basso? «In Val d’Agri in Basilicata si stanno raggiungendo profondità di oltre 4-5 km, e non si tratta solo di estrazione, ma anche di iniezione a forte pressione di fluidi per migliorare la produzione. L’iniezione ad alta pressione di questi fluidi fa sì che aumenti la permeabilità delle rocce, permettendo loro di insinuarsi nelle fratture, di fatto lubrificandole. È vero che i terremoti si generano a molti chilometri di profondità, come i 6 di quello del maggio scorso in Emilia, ma la porzione di crosta interessata dalla faglia attiva arriva fin quasi alla superficie. Se la parte superiore di questo ‘pacco’ di rocce viene destabilizzata dall’attività di decine di pozzi di estrazione e reiniezione, è chiaro che l’evento sismico è reso più probabile e distruttivo».

Secondo Ortolani, in Emilia il rilascio dell’energia tettonica accumulata nel tempo potrebbe essere stato favorito dalle attività estrattive che per oltre 50 anni sono state realizzate nell’area dell’epicentro. Un fenomeno simile potrebbe interessare anche la Val d’Agri, il maggior centro di estrazione petrolifera in Italia, una zona sismica dove l’ultimo grande terremoto risale a 150 anni fa. «E ora si parla di prospezioni petrolifere persino in Irpinia …», aggiunge Ortolani. «Bisogna assolutamente che, prima di concedere permessi per l’estrazione nelle aree interessate da faglie attive, si eseguano ricerche approfondite per individuare esattamente ubicazione e geometria delle stesse: non si possono effettuare stimolazioni nel sottosuolo senza conoscere dove e come siano le faglie e quanta energia tettonica vi sia già accumulata. Il rischio è notevole e occorre un’approfondita conoscenza del sottosuolo prima di intraprendere “stimolazioni”, non farlo sarebbe come farci fare delle iniezioni da un infermiere bendato. È necessario anche che la valutazione del rischio sismico sia affidata a ricercatori indipendenti, e non a chi di giorno lavora nelle Università e la notte fa consulenze per i petrolieri. Come i due esperti che la Protezione Civile e la Regione Emilia Romagna hanno inserito, a fianco di 4 stranieri, nella commissione che deve valutare – con soli 50.000 euro e due sole riunioni – le possibili responsabilità delle compagnie petrolifere nel caso del terremoto emiliano: è vero che non hanno mai lavorato in Emilia per quelle compagnie, ma hanno una lunga lista di consulenze per società del ramo, fatte altrove».

Secondo il dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), Claudio Chiarabba, l’allarme di Ortolani è tutt’altro che infondato: «Ci sono numerosi studi che documentano la sismicità indotta dalle operazioni petrolifere, geotermiche e persino dal variare del livello dell’acqua nei bacini idroelettrici. Il problema, però, è che nel caso petrolifero, questi studi provengono per lo più da aree non sismiche, dove le leggere scosse indotte dalle attività sono più rilevabili, perché non si confondono con quelle naturali. C’è però un caso, dibattuto, in cui una scossa di terremoto a Coalinga, in California, nei primi anni ’80, fu messa in relazione ad attività petrolifere nell’area».

Poche settimane fa una ricerca pubblicata su Nature Geoscience da Pablo González, dell’Università del Western Ontario, in Canada, ha invece collegato il sisma del maggio 2011 – che ha causato nove morti a Lorca, in Spagna – con l’enorme estrazione di acqua di falda per le serre che tappezzano l’area. «Però – continua Chiarabba – sia nel caso dell’Emilia, sia della Val d’Agri, sappiamo di scosse anche in epoche in cui non esistevano attività di estrazione di idrocarburi. Il punto, quindi, è questo: le attività petrolifere in aree sismiche potrebbero anticipare di qualche tempo le scosse, ma non sono loro a provocarle direttamente. I terremoti in quelle aree, petrolio o non petrolio, sono avvenuti e, purtroppo, avverranno in futuro. Detto questo, noi sismologi auspicheremmo sicuramente una maggiore trasparenza da parte delle società petrolifere, ma anche da quelle che si occupano di geotermia, che oggi tengono in gran parte riservati, considerandoli parte del loro capitale, i dati delle loro prospezioni geofisiche e delle loro attività di estrazione e reiniezione di fluidi, dati che ci sarebbero preziosi anche per valutare la connessione fra queste attività e la sismicità. Ma a forzarle a condividere con noi questi dati, a fini di ricerca, di controllo e di prevenzione, non può certo essere l’Ingv: ci deve pensare lo Stato».

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