Nuovi modelli agricoli e accettabilità della bioenergia

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La missione dell’agricoltura oggi è quella di produrre alimenti, foraggi ed energia in modo sostenibile e riavvando nuovi investimenti nel settore. Un esempio è la filiera a biogas che potrebbe essere un potente strumento di riorganizzazione dei flussi di nutrienti e dell’energia anche nell’ambito di piccole aziende agricole.

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Ho letto nel mese di agosto su Qualenergia.it l’articolo “Vale la pena scommettere sull’energia da biomasse?” a recensione di uno studio che avevo già seguito nei blog tedeschi un anno fa. Nulla di nuovo, e non solo perché lo studio è datato. C’è una parte dell’intellighenzia tedesca ed europea che continua a non comprendere che a problemi sistemici si risponde con soluzioni sistemiche.

A fronte della crescita del ceto urbano dei Paesi BRIC e degli effetti dei cambiamenti climatici è necessario trovare una discontinuità effettiva del modo di produrre in agricoltura. Ma il conservatorismo di queste posizioni, che non sanno dare un’alternativa all’agricoltura che non sia quella di produrre meno, è disorientante. Le mie tesi invece sono opposte:

1. L’efficacia di una filiera in grado di produrre alimenti ed energia non si misura soltanto con l’efficienza di conversione energetica dell’energia solare rispetto ad alternative industriali (il FV per esempio), ma nella capacità di attivare sistemi agricoli competitivi applicabili sia nei Paesi OCSE che in quelli in via di sviluppo, capaci di essere progressivamente indipendenti dai flussi di nutrienti di energia fossile. Anche a questo per esempio contribuisce il biogas in azienda agricola.

2. Continuare a paragonare il potenziale dell’energia da biomasse con il consumo attuale di energia primaria di origine fossile e, di conseguenza, dire che la bioenergia non sarà mai abbastanza, non ha senso: ovviamente andiamo verso una riduzione dei fabbisogni di energia primaria per unità di servizio e questa è una grande notizia non solo per l’entropia dell’universo, ma per la possibilità di un’effettiva transizione alle rinnovabili. C’è un problema però: quello di trovare il modo di realizzare questa transizione nonostante gli interessi opposti della più grande industria monopolistica della Terra, quella degli idrocarburi. È il tema del mercato dell’energia: oggi la SEU, domani il greening della rete del gas, il biometano nell’autotrazione, le near-zero-energy-homes, ecc. Ce li faranno fare? Per questo confido in un rinnovato attivismo autunnale del coordinamento delle Associazioni delle rinnovabili italiane.

3. Il potenziale di una filiera da fonti rinnovabili si misura in relazione alle sue “capacità” di innovazione tecnologica. L’olio vegetale era morto prima di nascere, perché lungo la sua filiera non puoi scoprire nulla di eclatante in grado di ridurre in modo progressivo e consistente i costi di produzione, aumentare l’efficienza nell’uso del suolo e ridurre le emissioni di gas serra. La filiera biogas, per contro, è un pozzo di applicazioni tecnologiche, è integrabile con solare e vento, è un potente carbon sink, può ambire alla grid e cost parity con le alternative fossili lungo un percorso definibile.

Ma una sua efficace integrazione nell’ambito dell’azienda aiuta a sviluppare anche un nuovo modello agricolo in grado di valorizzare un’idea “autarchica” dell’impresa agricola, nel senso di un’azienda che è in grado di produrre di più con meno (energia fossile); e se a qualcuno dà fastidio il legame con il ‘ventennio’, inviterei ad approfondire la rilettura che di questo periodo storico danno Giorgio Nebbia e Ruzzenenti (L’autarchia Verde, Jaca Book), ovvero secondo l’esperienza dei Chemiurgy negli Usa negli anni trenta. Un periodo storico molto interessante per l’interpretazione dei problemi odierni, non solo per la coincidenza dei tempi di crisi, ma per il fulgido impegno della Scienza italiana di quegli anni per il progresso del Paese e, in particolare, dell’agricoltura e delle industrie agrarie.

Analogamente il biogas rende attuabile l’idea di un’agricoltura in grado di riciclare (secondo i principi riassunti in modo forse fin troppo ideologico, ma non per questo meno chiari, da Barry Commoner in “Closing the circle”) alla scala dell’impresa agricola e non della filiera industriale con tanto di mezzadria a riporto, in ragione anche della possibilità offerta dal biogas di avere sistemi energetici efficienti anche a livello di impianti da pochi MW termici; evitando in tal modo i mega impianti con monocolture connesse ovvero importazione di biomasse da luoghi lontani.

Questa è la filiera a biogas, non solo una bioenergia tra le altre, e peraltro locale, ma un potente strumento di riorganizzazione dei flussi di nutrienti e dell’energia nell’ambito delle aziende agricole (singole o tra esse differentemente connesse); la possibilità di immaginare, a partire dal digestore, una nuova sostenibilità e competitività dell’azienda agricola nei mercati alimentare, foraggiero ed energetico. In definitiva il biogas è un’importante ragione per tornare a investire in agricoltura: chiedere conferma a tanti di quei colleghi che in virtù del digestore sono riusciti a mantenere la stalla aperta, sfuggendo alla sorte che altri, che questa opportunità non hanno potuto avere, hanno subito a causa di vendita a prezzi non remunerativi per diversi anni.

Come si può non vedere questo potenziale?

La missione dell’agricoltura oggi più che nel passato è quella di produrre alimenti, foraggi, e nel contempo energia, senza ampliare le superfici attuali disboscando territori ricchi in biodiversità e carbonio, ma riavviando, per il tramite anche delle bioenergie, un ciclo di investimenti la cui assenza prolungata è la vera minaccia alla sicurezza alimentare.

Ma essendo le biomasse l’unica fonte di energia chimica rinnovabile a base carbonica disponibile, perché in Europa e in Italia quando parliamo di agricoltura, i temi dell’impresa, la tecnica, i mercati, diventano argomenti meno rilevanti rispetto alle emozioni, alle sensazioni, e alle tesi apodittiche? Cui prodest?

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