Sulcis e cattura della CO2, un progetto fattibile o illusione?

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Tra i progetti che potrebbero salvare il lavoro dei minatori in lotta del Sulcis si parla di produrre energia usando il carbone della miniera, catturare l'anidride carbonica prodotta e immagazzinarla. Ma la cosa ha senso a livello economico e ambientale? Ne parliamo con Giuseppe Girardi dell'ENEA che da anni studia questa possibilità.

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Nelle parole disperate dei minatori chiusi a 370 metri di profondità nel pozzo della miniera di Nurax’e Figus, l’ultima di carbone aperta nel Sulcis in Sardegna, ricorreva spesso la citazione di un progetto che dovrebbe salvare il loro lavoro, producendo al tempo stesso “energia pulita” e persino tanto economica da consentire la sopravvivenza delle energivore industrie metallurgiche della zona. Un progetto verso il quale venerdì 31 agosto è arrivata anche una parziale apertura dal Governo. Viene quindi da chiedersi in cosa possa consistere questo miracoloso progetto, che da uno dei carboni peggiori d’Europa, per l’alto tasso di zolfo e di ceneri, e più costoso di quelli importati, dovrebbe riuscire a tirare fuori ‘kWh puliti’ ed economicamente competitivi.

Lo abbiamo chiesto a una delle persone più addentro al progetto in questione, l’ingegner Giuseppe Girardi, coordinatore delle attività di impiego sostenibile dei combustibili fossili all’Enea e vicepresidente della società Sotacarbo, che studia, proprio nel Sulcis, vari modi innovativi per l’uso del carbone, quali gassificazione, combustione con ossigeno puro e tecnologie di cattura della CO2, la cosiddetta CCS (carbon capture and storage).

«In realtà sui giornali non si sono riportate esattamente le cose», precisa Girardi. «Questo progetto ha un suo senso industriale, non è nato specificamente per salvare l’ultima miniera di carbone sarda e i 500 minatori che vi lavorano, ma dimostrare su scala industriale la fattibilità del CCS. E, naturalmente, essendo un impianto dimostrativo, non sarà in grado, di per sé, di produrre elettricità a prezzi competitivi. Ma se, accanto al suo scopo primario, contribuisse anche a salvare l’economia del Sulcis, tanto meglio». 

L’idea sarebbe quella di costruire una centrale elettrica da 400 MW vicina alla miniera di Nurax’e Figus, usare il suo carbone per alimentarla, separare la CO2 dai fumi della combustione, tramite assorbimento in ammine, comprimerla e infine pomparla nel sottosuolo, in falde acquifere e strati di carbone, a 1.000 metri di profondità. Dove, si spera, resti indefinitamente. Il tutto spendendo circa 1,5 miliardi di euro in una decina di anni, al momento previsti interamente a carico di Stato italiano e Regione Sardegna, ma che potrebbero essere coperti, per qualche centinaia di milioni, dall’Unione Europea, che finanzia impianti sperimentali di CCS, come quello di cui Enel vorrebbe dotare la centrale di Porto Tolle.

Il primo dubbio che viene riguardo al CCS nel Sulcis è se convenga usare per un progetto, già costosissimo di per sé, pure un carbone di scarsa qualità, che farà ulteriormente aumentare i costi e diminuire l’economicità della produzione elettrica. «In realtà l’alto contenuto di zolfo del carbone sardo, in questo contesto, è un problema secondario, perché in ogni caso lo zolfo va rimosso prima del passaggio dei fumi nell’impianto ad ammine, che assorbe la CO2 – ribatte Girardi – quindi, tanto o poco che sia, una desolforazione completa è comunque prevista dal CCS. Inoltre tenete conto che nel mondo, per la grande richiesta di carbone e per l’esaurirsi dei giacimenti migliori, si tende a usare sempre più carbone di scarsa qualità, quindi, ed è un elemento di grande importanza, un’esperienza con quello del Sulcis, servirebbe a testare la tecnologia in condizioni più realistiche».

Ok, ma perché dovremmo investire così tanti soldi nella sperimentazione di una tecnologia che fa aumentare di un 30-40% il prezzo dell’elettricità da carbone, rendendolo praticamente pari a quello del gas? «Le attività di ricerca, a cui ENEA e Sotacarbo partecipano, hanno proprio lo scopo di ridurre questi costi. Inoltre il trading della CO2, già in atto nella UE, o ulteriori carbon tax, cambieranno la situazione: le fonti con il CCS, che non emetteranno CO2, competeranno ad armi pari con quelle fossili che continueranno a emetterla e saranno penalizzate per questo. Basterebbe che il prezzo di una tonnellata di CO2 arrivi a 30-40 euro, e il terreno di gioco si riequilibrerebbe». In realtà, però, oggi la tonnellata di CO2 è sotto gli 8 euro e, con la crisi industriale in atto, pare difficile che salga di molto nei prossimi anni. Indizio di questo, è il fatto che in Germania continuano a costruire centrali a carbone senza, apparentemente,  preoccuparsi molto del problema del costo delle emissioni di CO2. Pare poi anche strano che a sperimentare il CCS debba essere proprio l’Italia, dove questa fonte è molto malvista dalla popolazione.

Aggiungere, alle contestazioni legate all’inquinamento atmosferico dovuto al carbone, anche le prevedibili diatribe legate all’immissione nel sottosuolo della CO2, sembra un po’ un cercarsi problemi: c’è da scommettere che 5 minuti dopo l’apertura del primo impianto a CCS, appariranno agguerriti comitati “NO CO2” per fermare tutto, per il timore di fuoriuscite. «Puntare sul CCS – risponde l’ingegnere – non è una nostra bizzarria, in tutto il mondo si punta su queste tecnologie e  la stessa Interational Energy Agency  le indica come strumento essenziale per raggiungere gli obbiettivi di riduzione delle emissioni di CO2. Per quanto riguarda lo stoccaggio geologico della CO2,  i risultati che abbiamo sulla geologia del Sulcis sono molto rassicuranti, anche per la natura non sismica del suolo sardo. Ma sicuramente occorre studiare ulteriormente il sottosuolo e fornire un’informazione autorevole e completa alla popolazione e alle amministrazioni locali, oggi compattamente dietro il nostro progetto, per coinvolgerle nelle decisioni».

Ma dato che in Italia, a parte il piccolo giacimento del Sulcis, di carbone non ce n’é altro, che ce ne facciamo di tecnologie per una fonte che non ha molte possibilità di svilupparsi da noi? «La ratio del progetto – spiega Girardi – è quella di sviluppare, testare e poi produrre industrialmente tecnologie CCS, destinate al mercato estero. Pensate alla Cina, dove viene costruita una centrale a carbone ogni poche settimane. Anche loro si stanno ponendo il problema delle emissioni di CO2 e chi gli offrirà soluzioni per risolverlo, potrà fare ottimi affari. Inoltre, una volta create le tecnologie, le stesse potrebbero essere usate anche per le centrali a gas, per cementifici, acciaierie e altri impianti industriali che emettono enormi quantità di CO2, per ora senza rimedio».

Viene però da pensare che se il quadro economico fosse così promettente, dato che progetti per utilizzare in modo innovativo il carbone del Sulcis esistono fin dal 1995, si dovrebbe avere una fila di investitori alla porta. Invece pare che nessun privato sia disposto a metterci un euro.  Forse, fatti un po’ di conti su costi e tempi, si teme che (ammesso che il CCS entri mai nella pratica industriale, per adesso di discorsi se ne sono fatti molti, ma di impianti su grande scala non se ne sono visti), la soluzione arriverà dai Paesi che le miniere le hanno in casa, e che quel problema studiano già da tempo, come gli USA, la Germania o la Cina stessa.

E, di questi tempi, spendere 1.500 milioni per una scommessa tecnologico-industriale è un sacrifico che difficilmente si potrà chiedere agli italiani. «In realtà l’ipotesi di applicare il CCS all’impianto del Sulcis è recente, è previsto nella legge 99 del 2009. Qui non si tratta, perlomeno non solo, di salvare il lavoro ai minatori di Nurax’e Figus, ma di cercare di cogliere una sfida di innovazione industriale, in grado di offrire all’industria nazionale grandi opportunità nel mercato globale dell’impiantistica energetica – conclude Girardi -; la Sardegna ha tutte le caratteristiche per realizzare un polo di eccellenza in questo settore e il Sulcis ci offre una grande opportunità per il positivo contesto geologico e socio-politico».

Anche se non certo sulle posizioni di chi propone di investire questa montagna di soldi in un polo delle energie rinnovabili, piuttosto che nel carbone con o senza CCS, anche il governo Monti sembrava piuttosto restio a portare avanti questo progetto perché, come aveva detto senza troppi svolazzi il sottosegretario alle Attività Produttive, Claudio De Vincenti, «troppo costoso». Ma poi, venerdì 31 agosto, dopo un incontro con le autorità sarde, il Governo ha fatto una parziale marcia indietro, lasciando aperto uno spiraglio: oltre a proporre al Parlamento una proroga all’attività della miniera, vuole anche «rivedere il progetto (della centrale con CCS, ndr) per aggiornarlo e renderlo compatibile con le migliori tecnologie ed economicamente sostenibile».

Non c’è bisogno di essere particolarmente maligni per sospettare che il porre come condizione che il già ossimorico «carbone pulito» sia anche «sostenibile economicamente», suona tanto come una bocciatura rimandata per motivi di ordine pubblico.

(vedi anche Qualenergia.it, Carbone del Sulcis, laboratorio per una riconversione ecologica),

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