Durban: verso un fallimento che nemmeno delude?

Dalla Cop 17 che si sta tenendo a Durban segnali poco incoraggianti. Lo scontro tra paesi emergenti e paesi ricchi appare insanabile, la crisi economica distoglie attenzioni ed energie dalla questione clima. Sembra quasi impossibile che dalla conferenza esca un accordo efficace per sostituire nel 2012 il protocollo di Kyoto.

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Dopo una lunga e travagliata carriera, nel 2012 scadrà il Protocollo di Kyoto e non c’è ancora un successore in vista. A Durban 195 nazioni sono riunite per cercare di trovare un accordo sul clima. L’obbiettivo della Cop 17 (diciassettesima conferenza delle parti) della Unfccc (United Nations Framework Convention on Climate Change) è dare alla comunità internazionale un sistema di regole condivise per affrontare e mitigare i cambiamenti climatici. La conferenza, tuttavia, non sta prendendo una piega incoraggiante e sono in pochi a sperare che ne verrà fuori un accordo significativo.

I colloqui sul clima sono rimasti impantanati a Copenhagen, dove, nel 2009, la Cop 15, che si era aperta con aspettative altissime, si era conclusa con un insuccesso, dovuto prevalentemente al disaccordo tra paesi ricchi e paesi poveri. A peggiorare le cose ci si è messa la crisi economica che ha distolto l’attenzione dalla questione clima. Chi ha voglia di parlare di riscaldamento globale quando non si sa se si arriva alla fine del mese? Con buona pace di chi sostiene che la green economy potrebbe creare posti di lavoro e rappresentare una soluzione alla crisi. Il mondo, spaventato, non ascolta e i Paesi continuano a chiedere energia a basso costo.

L’ambiente e il clima hanno smesso di andare di moda e nemmeno Obama si spende più troppo per promuovere quel capitalismo verde su cui aveva puntato parte della sua campagna elettorale. Anche per fare la green economy, infatti , ci vogliono soldi e investimenti. E, se è vero che le rinnovabili continuano a crescere, gli incentivi a queste fonti sono sempre più spesso oggetto di critiche. Insomma sembra che il clima debba aspettare. Ma il tempo stringe, le temperature continuano a salire e il 2012 è domani.

Nonostante le premesse, a Durban gli irriducibili dei trattati proveranno a trovare un erede allo zoppicante e ormai vecchio protocollo di Kyoto. “È evidente che Durban è la fine della corsa per alcune delle più pressanti questioni ambientali, non possiamo aspettare oltre” ha detto Maite Emily Nkoana-Mashabane, ministro per le relazioni e la cooperazione internazionale del Sud Africa  che presiede la conferenza.  La Cop 17, che si concluderà il 9 dicembre, punterà a due obbiettivi fondamentali: costruire un’adeguata struttura istituzionale che supporti i Paesi in via di sviluppo nel rispondere ai cambiamenti climatici ed elaborare una strategia condivisa – che comprenda anche procedure di verifica – per mantenere l’innalzamento delle temperature globali entro i due gradi. Entrambi questi punti sono stati discussi e concordati nel corso dell’ultima Cop. Ora si tratta di trovare gli strumenti operativi per realizzare questi obbiettivi.

Centrale sarà anche il futuro del Protocollo di Kyoto che è ancora l’unico trattato vincolante mai sottoscritto dalle nazioni sul clima. Nessuno crede che il vecchio protocollo possa sopravvivere alla sua naturale data di scadenza, ma le speranze sono che alcuni degli strumenti previsti dal protocollo vengano conservati. Tra questi c’è il cosiddetto Clean Development Mechanism (CDM) che consente alle nazioni industrializzate di acquisire crediti (ovvero permessi di emettere certi quantitativi di gas serra) investendo in tecnologie pulite nei paesi in via di sviluppo. Questo meccanismo, come anche quello dell’emission trading (di fatto una sorta di mercato delle emissioni),  è aspramente criticato dal mondo ambientalista e da una parte delle nazioni che partecipano ai colloqui.

Lo scontro è, ancora una volta, tra paesi ricchi e poveri, che nel gergo del protocollo di Kyoto venivano definiti rispettivamente Annex e non-Annex, dove solo ai primi erano richiesti tagli obbligatori alle emissioni. È un faccia a faccia tra chi ha inquinato finora e chi ha iniziato a inquinare solo adesso, tra chi teme di perdere competitività e vorrebbe quindi che le limitazioni sulle emissioni valessero per tutti e chi ritiene di aver diritto a sfruttare le proprie risorse e a inseguire uno sviluppo che altre nazioni hanno avuto diversi decenni fa. Usa e Cina, sono le nazioni simbolo di uno scontro che ha messo in crisi il protocollo di Kyoto, fatto arenare i colloqui a Copenhagen e che non sembra ancora vicino a una soluzione.

Il commissario europeo per il clima, Connie Hedegaard, ha detto più volte che nessuna soluzione è possibile senza l’accordo e la firma di tutte le nazioni. Il riferimento è agli Stati Uniti che non hanno mai sottoscritto il trattato di Kyoto, rendendo, di fatto sostanzialmente inefficaci molti dei meccanismi in esso previsti.

I Paesi in via di sviluppo, per canto loro, premono perché l’altra parte del mondo renda effettivo il fondo da 100 miliardi di dollari l’anno, previsto per stimolare energie e tecnologie sostenibili nei paesi non industrializzati.

Quest’anno qualche ulteriore difficoltà potrebbe venire dal Giappone che, dopo il disastroso terremoto del marzo scorso, non sembra ben disposto verso un nuovo protocollo che preveda impegni gravosi e limitazioni obbligatorie.

Secondo Rajendra Pachauri, direttore dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), tuttavia, trovare una soluzione non è impossibile. In un’intervista a Reuters, l’economista indiano ha detto: “Indipendentemente da ogni trattato, se la società umana capisce che qualcosa va fatto, verranno prese adeguate misure, in ogni caso”. La chiave è mantenere l’aumento delle temperature al di sotto di quei due gradi che, secondo i climatologi, dovrebbero garantirci di restare dentro i limiti di sicurezza. “Se vogliamo farlo seguendo una traiettoria a basso costo, allora dobbiamo essere certi che le emissioni di CO2 raggiungano il picco non più tardi che nel 2015, che è tra 4 anni appena. In altre parole, dopo il 2015, le emissioni devono iniziare a decrescere”.

Sembra improbabile che questo possa essere il risultato della conferenza di Durban, già messa in crisi da un nuovo climategate che spalanca le porte agli scettici del global warming. Era già avvenuto prima della Cop 15 di Copenhagen e la storia si sta ripetendo nello stesso modo: uno scambio di email tra eminenti scienziati del clima, scovato da degli hacker, rivelerebbe che le teorie sui cambiamenti climatici sarebbero ancora incerte. Non è difficile rintracciare in questa notizia, di provenienza Usa, il tentativo di screditare la scienza a vantaggio di una parte della politica che vede nei trattati sul clima un’assurda limitazione al libero mercato.

Ma quest’anno la controparte non è preparata come lo era nel 2009: Copenhagen aveva segnato un momento storico per il movimento ambientalista, con un coinvolgimento della società civile mai visto prima.  A due anni di distanza, dopo una lunga stasi, l’opinione pubblica sembra aver perso interesse per il clima. A Durban ci sono tutte le premesse perché si ripeta il copione delle ultime due Cop, con la differenza che nessuno sarà deluso. Le aspettative sono talmente basse che basterebbe poco per ottenere un successo.

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