Il rischio di carenza di metalli rari per fotovoltaico ed eolico

CATEGORIE:

La carenza di metalli rari sarà un collo di bottiglia capace di frenare la green economy? Secondo un report del Joint Research Center della Commissione europea pare di sì. In particolare per 5 metalli (indio, gallio, tellurio, neodimio e disprosio) i problemi di approvvigionamento porranno un alto rischio per settori come fotovoltaico ed eolico.

ADV
image_pdfimage_print

La carenza di metalli rari sarà un collo di bottiglia capace di frenare la green economy? La domanda negli ultimi anni se la sono posti in molti (Qualenergia.it, La green economy e la carenza dei metalli rari). In questi giorni un tentativo di risposta arriva da un report del Joint Research Center della Commissione europea (vedi allegato in basso): la risposta è positiva in particolare per 5 metalli (indio, gallio, tellurio, neodimio e disprosio) che avranno problemi di approvvigionamento e porranno un alto rischio per settori tecnologici fondamentali come fotovoltaico ed eolico.


Negli ultimi anni c’è stata una crescita rapida della domanda di molti metalli, alcuni dei quali a rischio supply crunch, non solo per la limitatezza delle riserve ma soprattutto per la loro concentrazione in aree del pianeta relativamente ristrette e spesso politicamente problematiche. Il gallio ad esempio viene quasi tutto dalla Cina, il cobalto dal Canada e dalla Repubblica del Congo. Le nazioni più ricche di metalli rari (detti anche terre rare) sono Russia (platino, palladio), Brasile (niobidio, tantalio), Cina (antimonio, fluorosparo, gallio, germanio, grafite, indio, magnesio, tungsteno) e Repubblica democratica del Congo (cobalto, tantalio). Paesi esportatori che spesso sono anche economie emergenti, e che, come nel caso cinese, stanno adottando politiche che – tramite incentivi e tassazioni – mirano a far rimanere entro i propri confini i metalli.


Altri fattori che rendono “critico” un minerale sono l’impatto ambientale della sua estrazione e il fatto che eventuali misure di salvaguardia ambientale la riducano, nonché l’impossibilità di sostituirlo con altre risorse. C’è poi l’incognita dell’evoluzione tecnologica capace di creare nuove criticità o di risolverle.


L’Europa dipende dall’import per quasi il 100% del fabbisogno di questi elementi. Per questo che la Commissione si stia preoccupando da tempo del problema (Qualenergia.it, I metalli che possono mettere in crisi l’economia low-carbon). Lo studio del JRC parte dal fabbisogno di metalli rari delle 6 tecnologie low carbon su cui è incentrato lo Strategic Energy Plan (SET-Plan) europeo: nucleare, eolico, solare, cattura della CO2, energia da biomasse e reti elettriche. Da qui si individua un gruppo di 14 metalli “osservati speciali”, in ordine decrescente di fabbisogno: tellurio, indio, stagno, afnio, argento, disprosio, gallio (nella foto in alto), neodimio, cadmio, nichel, molibdeno, vanadio, niobio e selenio (vedi tabella in basso: Il fabbisogno previsto al 2030 secondo lo scenario SET-plan in rapporto alla produzione attuale).



Analizzando i vari fattori che potrebbero portare al supply crunch, il JRC va a vedere quali sono gli elementi più a rischio e su quali settori la carenza potrebbe impattare alla luce delle previsioni di crescita (seconda tabella). Ad esempio la crescita del fotovoltaico a film sottile con tecnologia CdTe e CIGS porterà ad un incremento marcato del fabbisogno di tellurio (fino a +48%), indio (fino a +32%) e gallio (circa 8%).


Per quel che riguarda l’eolico, la diffusione di sistemi direct drive con magneti permanenti – si legge nel report – farà crescere il fabbisogno di altri due metalli critici come neodimio e disprosio: secondo il JRC l’Europa entro il 2030 dovrà accaparrarsi fino al 4% della produzione mondiale annua dei due elementi, anche se secondo EWEA, l’associazione dell’eolico europeo, l’eolico continentale non avrà bisogno di più dell’1% della produzione mondiale (prevedendo però che questa aumenti coerentemente).



Diverse le raccomandazioni del JRC per evitare la scarsità di offerta: innanzitutto tenere alta l’attenzione con il monitoraggio; poi promuovere la ricerca di soluzioni alternative o processi che permettano di usare o estrarre in modo più efficiente questi elementi e, infine, una serie di azioni per incrementare il riciclo e il recupero degli scarti di produzione.


Attualmente – ricordiamo citando un report Unep dell’anno scorso sull’argomento (Metal Stocks in Society) – solo l’1% di questi materiali viene recuperato, il restante 99% va perso. Il fabbisogno di indio, usato per la realizzazione di semiconduttori e lampade Led, ad esempio, è previsto in raddoppio entro i prossimi 10 anni, ma attualmente se ne ricicla meno dell’1%. Per il palladio, invece, si potrebbe riciclare tra il 50 e il 90% del totale in circolazione, ma attualmente si riesce a recuperarne solo il 5-10% e questo anche perché nel mondo solo il 10% dei cellulari gettati viene smaltito in maniera corretta.


Una svolta obbligatoria, quella che porta al riciclo, per evitare le carenze che si profilano e per ridurre l’impatto dell’estrazione di questi metalli in termini di emissioni e altri impatti ambientali (spesso molto pesanti). E anche perché – come si scopre sfogliando il report Unep – le riserve di metallo sono sempre di più “al di sopra del suolo”, cioè non nelle miniere ma nei rifiuti da smaltire: ad esempio se nel 1932 per ogni americano c’erano 73 kg di metalli da recuperare ora ve ne sono 240 kg, una quantità destinata ad aumentare sempre più rapidamente dato che in pratica in prodotti come computer e telefonini i metalli rari vengono “gettati” in media ogni 5 anni.

ADV
×