Nessun accordo sul clima senza l’espansione delle rinnovabili

Un accordo internazionale sul clima nei prossimi anni sarà impedito dalla forte lobby del settore energetico convenzionale. Solo un ribaltamento dell'economia energetica, con una ancora più rapida crescita di rinnovabili e green economy, sarà decisivo per un accordo che vincoli tutti i paesi. L'editoriale di Gianni Silvestrini.

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Anche se si moltiplicano le conferme scientifiche sui rischi climatici e cresce l’urgenza di ridurre le emissioni, la forza dei settori energivori e di quelli del petrolio e del carbone è ancora tale da impedire un accordo internazionale che non verrà raggiunto né a Durban alla 17a Conferenza delle Parti, né nei prossimi 2-3 anni.  


Solo un ribaltamento dei rapporti di forza economici, o meglio, un significativo rafforzamento della green economy potrà creare le condizioni per un accordo. In questo caso infatti, i futuri vincitori avranno tutto l’interesse a favorire la definizione di obbiettivi di riduzione delle emissioni che facilitino la diffusione delle tecnologie “green”.


Analizziamo allora lo spazio che potranno avere le diverse opzioni tecnologiche di riduzione nello scenario di dimezzamento delle emissioni climalteranti su scala mondiale entro la metà del secolo, l’obbiettivo indicato dalla comunità scientifica e dalle Nazioni Unite. Il ruolo dell’efficienza energetica viene riconosciuto come centrale in tutte le analisi e deve essere il settore su cui concentrare i maggiori sforzi. Ci sono poi tre altre opzioni – rinnovabili, nucleare e sequestro del carbonio – che hanno alle spalle sponsors diversificati e che godono di alterne fortune.


Il nucleare dopo Fukushima è fortemente azzoppato e il suo contributo relativo è destinato a ridursi. Secondo l’ultimo rapporto della International Atomic Energy Agency, la percentuale di elettricità nucleare al 2050 potrà soddisfare dal 6,5% al 13,5% della domanda. Cioè, nello scenario più ottimista manterrebbe a fatica l’attuale quota. Chiaramente, non può essere considerata un’arma vincente.


Il sequestro dell’anidride carbonica prodotta dalle centrali, CCS, viene sperimentato in questi anni per verificare costi e impatti ambientali. Al momento, anche questa opzione è in difficoltà. In Germania la Vattenfall, che già aveva dovuto rinunciare ad un progetto di CCS in Danimarca, minaccia di cancellare un investimento da 1,5 miliardi di euro nella regione del Brandeburgo. Due settimane fa a causa dei costi eccessivi è stato abbandonato un altro progetto, Longannet che segue la sorte di quello di Kingsnorth, entrambi in Gran Bretagna, e sono stati cancellati o sospesi i progetti della Nuon e della RWE in Olanda. Insomma, non tira una buona aria al momento per questa tecnologia.


Restano poi le fonti rinnovabili, un settore che al contrario continua a mietere successi. Nel 2010 gli investimenti nel mondo hanno raggiunto la cifra di 270 miliardi di dollari e gli investimenti dei prossimi dieci anni i paesi del G20 potrebbero arrivare a 2.300 miliardi di dollari. Il forte calo dei prezzi di alcune tecnologie, come il fotovoltaico che ha visto un dimezzamento delle quotazioni in soli quattro anni, sta accelerando la loro diffusione.


Sono ormai 66 i paesi nel mondo che si sono dati obbiettivi precisi per le rinnovabili al 2020. Alcuni, come la Germania, guardano già più avanti e vogliono soddisfare la metà della domanda elettrica con l’energia verde nel 2030 e almeno l’80% nel 2050. Secondo lo “Special Report on Renewable Energy Sources and Climate Change Mitigation” dell’IPCC pubblicato quest’anno, la diffusione delle rinnovabili potrebbero arrivare entro la metà del secolo a tagliare significativamente (fino a due terzi negli scenari più spinti) le emissioni globali di CO2. E questa scelta, sul lungo periodo, garantirà anche vantaggi economici.


Dunque, sarà la crescita dei comparti dell’efficienza energetica, delle rinnovabili, della mobilità sostenibile, della forestazione, cioè della green economy ad essere decisiva per un accordo sul clima che vincoli tutti i paesi. Anche perché si tratta di settori nei quali soprattutto la Cina, il principale responsabile delle emissioni climalteranti e uno dei principali ostacoli di un accordo, sta progressivamente acquisendo una forte leadership.

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