Gli investimenti in fonti fossili saranno i prossimi subprimes?

Troppi investimenti in fonti fossili rispetto a quanto si potrà estrarre alla luce della lotta ai cambiamenti climatici. La denuncia arriva da un report di Carbon Tracker Initiative. Al mercato, Stati e fondi pensione manca la visione sul lungo termine. Il rischio è una svalutazione di questi asset e una profonda crisi finanziaria globale.

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Gli investimenti nelle fonti fossili potrebbero esser i nuovi subprimes. C’è un rischio sistemico profondo, ma trascurato nel mercato finanziario mondiale, che potrebbe portare danni peggiori di quelli dell’ultima crisi economica e finanziaria. Una quantità enorme di denaro è infatti impegnata in carbone, petrolio e gas che in futuro probabilmente non potranno essere estratti. Investimenti spesso a medio e lungo termine nelle fonti fossili compiuti anche da grandi fondi pensione e Stati, senza guardare al quadro macro della situazione: con le politiche necessarie a limitare il riscaldamento globale, circa l’80% delle riserve su cui si è finora investito non potrà essere sfruttato.


E’ questo il sunto estremo di un interessante studio appena pubblicato da Carbon Tracker Initiative (vedi allegato). Se nel mondo crescono gli investimenti in tecnologie pulite (si veda l’ultimo report REN 21 su Qualenergia.it, Le fonti rinnovabili, il primo driver della crescita mondiale), l’economia mondiale continua a puntare ancora molto su carbone, gas, petrolio e altri settori ad alta intensità di CO2: si pensi ad esempio al piano da 100 miliardi di dollari di Shell per aumentare l’output a 3,7 milioni di barili al giorno entro il 2014. Ma gli investitori – denuncia il report – non stanno tenendo conto dei limiti alla quantità CO2 che si potrà emettere. Quanta parte di quelle riserve su cui si sta investendo dovrà essere lasciata sottoterra?



Sono calcoli che invece il report riporta chiaramente, riprendendo quelli del Potsdam Insitute. Per ridurre fino al 20% la possibilità che la febbre del pianeta superi la soglia dei 2°C di aumento della temperatura globale, da qui al 2050 si potranno emettere ‘solo’ 565 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2. Le riserve conosciute di fonti fossili se bruciate ne produrrebbero 2.795, il 65% dal carbone, il 22% dal petrolio e il 13% dal gas (vedi grafico in alto). Potremmo allora usarne solo il 20%. Le riserve in possesso delle 100 più grandi compagnie quotate nel carbone e delle 100 del petrolio ammontano ad un equivalente in CO2 di 745 Gt: 180 in più di quello che potremo bruciare fino al 2050. In aggiunta ci sono anche le riserve di proprietà degli Stati: ne emerge che, per stare sotto ai 2°C, di tutte le riserve controllate dalle grandi compagnie quotate, si potranno usare solo gas, carbone e petrolio per l’equivalente di 149 Gt CO2.


“Questo significa – denuncia lo studio – che governi e mercati globali stanno trattando come assets riserve che sono 5 volte il budget che si potrà usare nei prossimi 40 anni. Le conseguenze di poter usare solo il 20% di queste riserve non sono ancora state considerate”. Gli investitori sono esposti al rischio di possedere asset di “carbonio che non si può bruciare” che potrebbero subire una pesante svalutazione. Dato che la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse ha un ruolo molto importante (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo), le conseguenze a catena per l’economia mondiale potrebbero anche essere catastrofiche.

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