Quando l’economia parla di cambiamenti climatici

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Mentre a Cancun i negoziati sono appena partiti, due accademici riflettono su costi e benefici economici necessari a rallentare il riscaldamento globale. Le teorie economiche sul tema sono diverse, ma quelle coerenti con la posizione della climatologia dicono che conviene agire subito e incisivamente.

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I negoziati di Cancun sono iniziati da un giorno e le notizie dal balletto diplomatico hanno già iniziato a fluire vorticosamente. Gli Usa hanno adottato una posizione “o tutto o niente” che potrebbe portare la superpotenza a boicottare l’accordo. Altre fonti sono più ottimiste riguardo ad un possibile appianamento degli attriti tra gli Stati Uniti e l’avversario principale, la Cina. Le ambizioni dell‘Europa di un impegno forte, come abbiamo già scritto, sono messe in dubbio dalla potenziale crisi dell’euro. Intanto paesi poveri e Ong denunciano tentativi di condurre i negoziati in maniera dirigistica e semisegreta, come è in parte avvenuto a Copenhagen: dal testo proposto dalla Chair, Patricia Espinosa, ministro agli Esteri messicana, che sarà la traccia di lavoro generale per le due settimane di vertice, risultano infatti rimosse tutte le proposte avanzate da molti Paesi in via di sviluppo in questi mesi di negoziati (per una rassegna stampa aggiornata si veda il sito dell’Unfcc). 


Siamo già a battaglia iniziata e gli sviluppi si vedranno chiaramente solo nei prossimi giorni. Vale intanto la pena affrontare la questione dell’accordo mondiale sul clima da una prospettiva più teorica, ma molto importante: quella dei rapporti tra scienza economica e climatologia. Lo fanno sul Guardian un docente di relazioni internazionali e un economista: Kevin Gallagher della Boston University e Frank Ackerman, direttore del gruppo di economia del clima dello Stockholm Environment Institute, ai quali rubiamo qualche riflessione.


Le leggi della fisica, esordisce l’intervento dei due, non aspettano i tempi della politica, per cui è necessario fare chiarezza su quale siano le decisioni che economicamente conviene prendere. Il tentativo di screditare la climatologia con accuse di complotti pare essere fallito e a negare la pericolosità e l’origine antropogenica del riscaldamento globale sono restati in pochi (tra cui però purtroppo una parte rilevante della classe politica Usa, Qualenergia.it). Il dibattito ora si è spostato sui costi delle politiche per il clima.


icona dello scetticismo sul global warming, fanno notare i due accademici, ad esempio, non attacca più la climatologia, bensì sostiene che i danni derivanti dai cambiamenti climatici sarebbero contenuti, mentre i costi per ridurre le emissioni sarebbero enormi. A sostegno della tesi, Lomborg porta gli studi di economisti conservatori come Richard Tol e William Nordhaus. Tol e Nordhaus, fanno notare i due accademici nel loro intervento, non sono certo degli sprovveduti, bensì studiosi accreditati: il loro lavoro riflette però come gli economisti vedano spesso il cambiamento climatico, cioè in maniera differente rispetto agli scienziati del clima.


Mentre per la climatologia è chiaro che un riscaldamento globale al di sopra dei 2°C causerebbe cambiamenti climatici irreversibili e pericolosi, assunto fatto proprio anche dalla politica, tra gli economisti c’è chi pensa che il riscaldamento globale nelle prime fasi possa avere addirittura ricadute economiche positive. Tol, ad esempio vede più benefici che danni per un riscaldamento globale al di sotto dei 3°C. Nordhaus calcola perdite di un solo 1% di prodotto interno lordo mondiale con 2°C di riscaldamento. In entrambi i casi la soglia dei 2 °C non è considerata pericolosa.


Visioni che si discostano molto dai pilastri dell’economia ambientale quali il famoso rapporto Stern, che calcola che uno scenario ‘business as usual’ porterebbe ad un danno economico pari ad oltre il 5% del Pil mondiale che si potrebbe ridurre quasi completamente investendo l’1% del Pil in interventi per la riduzione delle emissioni. E se Stern reputa senz’altro conveniente l’azione, c’è chi è andato oltre, come Martin Weitzman, della Harvard University, che mostra come l’inevitabile incertezza della scienza climatica implichi che le conseguenze catastrofiche non possono essere mai scongiurate del tutto. Le politiche dunque, secondo Weitzman, dovrebbero essere studiate in modo da minimizzare il rischio dei peggiori scenari, non sulla base di quanto accadrà con maggior probabilità; “come l’acquisto di una polizza anti-incendio è motivato dall’eventualità del peggior scenario possibile e non dalle probabilità medie” (vedi studio in allegato).


Altri studi che contestano le teorie economiche che porterebbero all’inazione sono della Economists for Equity and Environment, rete di economisti ambientali americani. Il loro ultimo lavoro (che ha tra gli autori lo stesso Ackerman, vedi secondo allegato), stima economicamente conveniente nel rapporto tra costi e danni evitati puntare a stabilizzare in atmosfera la concentrazione di CO2 a 350 ppm (parti per milone). 


“Allora cosa dovrebbero concludere da questo dibattito i decisori politici?” si chiedono Gallagher e Ackerman. Per quel che riguarda la climatologia la scelta è facile: c’è una schiacciante maggioranza di studi scientifici peer-rewied che mette in guardia sui rischi del global warming, mentre a negarli o minimizzarli è rimasta solo una minoranza di politici senza competenze specifiche.


In quanto a teorie economiche sul clima, invece, la valutazione è più complessa e ci sono visioni diverse in studi validi e peer-rewied. “Se gli scienziati (del clima, ndr) hanno ragione sul fatto che ci sono rischi crescenti anche con pochi gradi di riscaldamento allora i modelli economici che minimizzano l’impatto di questi cambiamenti di temperatura sono basati su presupposti sbagliati.” E concludono: “Il mondo fisico non aspetta che risolviamo la questione. Meglio scegliere le nuove teorie economiche che sono in accordo con la climatologia. Se non riusciamo ad arrivare ad un accordo che ci permetta di agire a Cancun, saremmo destinati ad un intollerabile peggioramento del clima mondiale. Fare qualcosa per il global warming ha i suoi costi, ma sono molto minori rispetto ai costi del non fare nulla”.

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