La Russia che brucia è la Katrina di Mosca

Anche il Presidente russo si accorge dell'impatto della crisi climatica in un paese che l'ha sempre considerata con disattenzione o negata. Sul fronte delle politiche di riduzione delle emissioni i paesi leader dell'Europa vorrebbe un taglio ancora più incisivo. L'Italia invece si oppone, anche se il calo dei consumi energetici sta mettendo in crisi l'emissions trading. L'editoriale di Gianni Silvestrini.

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I roghi e le ondate di calore che stanno contrassegnando l’estate russa 2010 nell’immaginario collettivo e nelle posizioni delle istituzioni pubbliche sono quello che Katrina ha significato per gli Stati Uniti.
Sembrerebbe che sia così a sentire la dichiarazione del presidente Dmitri Medvedev lo scorso 30 luglio: “quello che sta accadendo al clima del pianeta rappresenta un forte segnale per noi e tutti i Capi di Stato dovrebbero assumere un atteggiamento più incisivo per contrastare il riscaldamento globale”. Un bel cambio di marcia da quando, solo un anno fa, poco prima di Copenaghen, Medvedev affermava che le emissioni russe sarebbero cresciute del 30% al 2020, perché il suo paese non intendeva mettere freni allo sviluppo.

Del resto finora in Russia la questione climatica ha ricevuto un’attenzione piuttosto blanda e non sono mancati i negazionisti. In un documentario trasmesso lo scorso anno dalla televisione pubblica si era arrivati a dire che la teoria del cambiamento del clima era una cospirazione dei media internazionali.

Secondo molti, in un paese con inverni molto rigidi, un aumento di temperatura non avrebbe fatto un gran male. Questa estate con temperature che hanno superato i 40 °C sta facendo ricredere molti.
A causa della siccità si è infatti finora perso il raccolto di grano di 10 milioni di ettari (quattro volte la Sicilia): circa un quinto della produzione russa è stata distrutta, con un contraccolpo sui mercati internazionali dove i prezzi sono aumentati del 50% dalla fine di giugno (vedi grafico). Inoltre 120.000 ettari di boschi sono bruciati e 1.500 edifici sono stati distrutti dalle fiamme. E gli incendi continuano, malgrado un esercito di 238.000 volontari, pompieri e soldati tentino di arginare il disastro. La temperatura massima prevista a Mosca nei prossimi giorni oscilla tra 37 e 39 gradi.

E tutto ciò mentre in Pakistan piogge monsoniche torrenziali che non si vedevano dal 1929 hanno fatto 1.100 vittime e, a livello planetario, i primi sei mesi dell’anno sono risultati i più caldi da quando si misurano le temperature.

La natura ricorda alle “diplomazie incerte” che non c’è tempo da perdere. A Bonn in questi giorni si aprono le discussioni preparatorie della Cop 16 di Cancun. Le speranze non sono molte, viste le difficoltà interne degli Usa. Il fatto però che i tre paesi forti della UE – Germania, Gran Bretagna e Francia – abbiano chiesto di innalzare dal 20 al 30% l’obbiettivo europeo di riduzione delle emissioni climalteranti al 2020, rappresenta indubbiamente un segnale importante.


Inutile dire che l’Italia guida le retroguardia dei paesi che invece non vogliono innalzare l’obbiettivo. E questo anche se, per effetto della crisi economica, il taglio del 20% diventa molto più facile da raggiungere. Non solo, ma il calo dei consumi energetici sta mettendo in crisi lo schema dell’emissions trading per le industrie energivore.
Il costo dell’anidride carbonica è infatti crollato a 14 €/t non rendendo convenienti gli investimenti di riduzione. Molte industrie si trovano con emissioni al di sotto del tetto loro assegnato e fanno affari vendendo le quote. L’unica soluzione è quella di innalzare gli obbiettivi, come anche molti gruppi industriali europei (per l’Italia la sola Barilla) hanno recentemente richiesto ai governi.

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