Nigeria, è un Golfo del Messico dimenticato

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Nel delta del Niger  perdite di petrolio quotidiane, una quantità di greggio disperso nell'ambiente pari ad una Exxon Valdez all'anno. A questo si aggiunge il devastante impatto del gas flaring. E mentre ambiente e popolazioni pagano un prezzo altissimo, le compagnie, tra cui la nostra Eni, riceveranno soldi per metter fine ad una pratica ormai illegale da 26 anni.

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Una Exxon Valdez all’anno che disperde il suo petrolio in un ambiente densamente popolato senza che se ne sappia niente; un disastro delle dimensioni di quello del Golfo del Messico che continua a consumarsi da quasi 50 anni, praticamente ignorato dall’opinione pubblica occidentale.

Perdite di petrolio al ritmo di una al giorno e pratiche illegali e dannosissime anche per il clima globale, come il gas flaring, che continuano ad essere praticate impunemente dalle stesse multinazionali da cui comperiamo la benzina. I costi ambientali e umani altissimi sulle spalle di un popolo già povero e mal difeso e i profitti ai grandi del petroilio: Shell, Mobil, Chevron, Elf,  ma anche la nostra Eni, azienda con il 30% di capitale a controllo pubblico, della quale dunque siamo azionisti anche noi.

In un ipotetico libro dedicato agli effetti collaterali del petrolio, un ampio capitolo dovrebbe essere dedicato a quel che da decenni sta avvenendo in Nigeria. Se ne è parlato ieri in una conferenza stampa degli Amici della Terra che ha visto la partecipazione oltre che della presidente dell’associazione, Rosa Filippini, di Christine Weise, Presidente della sezione italiana di Amnesty International, Elena Gerebizza, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale e del nigeriano Nnimmo Bassey, fondatore di Environmental Right Action Nigeria e Presidente di Friends of the Earth International, già nominato dal Time “Hero of the Environment 2009” per il suo ruolo attivo nel denunciare le violazioni dei diritti umani e ambientali da parte delle compagnie petrolifere nel Delta del Niger.

Con 606 pozzi petroliferi, dopo circa 50 anni di estrazioni, che nel 2009 sono arrivate a contribuire all’80% del Pil, la Nigeria e i nigeriani dovrebbero essersi arricchiti. Che ciò non sia accaduto – si è spiegato all’incontro – è evidente: il paese resta tra i più poveri e instabili e proprio nella la zona del delta del Niger, dove sono concentrati i pozzi la situazione è peggiore. A causa degli sversamenti di petrolio e della pratica del gas flaring, l’aria, le acque e il suolo sono gravemente inquinati e l’economia delle comunità rurali, dei pescatori e degli allevatori è compromessa. L’aspettativa di vita di chi vive nell’area – 31 milioni di persone. il 60% delle quali sopravvive con attività direttamente legate agli ecosistemi – è peggiorata nelle ultime due generazioni e arriva a poco più di 40 anni, contro i 47 del resto della Nigeria.

La zona è infatti teatro di un disastro ambientale continuo che va avanti da decenni. Fanno impressione le cifre citate da Nnimmo Bassey: 6.817 sversamenti di petrolio nel periodo tra il 1976 e il 2001 – quasi uno al giorno per 25 anni – e questo solo considerando quelli documentati dal governo, mentre “gli analisti sostengono che il numero reale possa essere anche dieci volte maggiore”. Un rapporto del 2007, condotto da studiosi nigeriani e dal World Conservation Union, valuta che nel Delta del Niger negli ultimi 50 anni sono stati sversati 1,5 milioni di tonnellate di petrolio, circa 50 volte lo sversamento della Exxon Valdez, ovvero una quantità equivalente a quella dispersa dalla piattaforma della BP nelle acque del Messico fino a questo momento.

Perdite che contaminano l’ambiente e restano da bonificare anche per anni; sono 2000 i siti ancora da ripulire, sempre secondo il governo nigeriano (accusato dagli ambientalisti di minimizzare il problema). Le compagnie infatti non sempre ripuliscono e comunque non lo fanno subito. Si accollano infatti i costi di bonifica e rimborsi solo se le perdite sono accidentali, non se imputabili a sabotaggi e furti: ecco perché le aziende sostengono che l’80% degli incidenti è doloso (accusando le comunità locali di voler arricchirsi con i furti e i rimborsi), mentre per gli ambientalisti, al contrario, le fuoriuscite avvengono per l’80% per la scarsa manutenzione dei 7000 chilometri di oleodotti in superficie, dei quali molti vecchi di oltre 30 anni quando secondo gli esperti i tubi andrebbero rimpiazzati ogni 15-20. Migliaia le cause legali per danni, combattute – sottolineano gli ambientalisti – in un sistema corrotto che avvantaggia evidentemente le potenti compagnie.

Non bastassero le perdite, le compagnie petrolifere attive in zona continuano a praticare il gas flaring: ossia la pratica di bruciare a cielo aperto il gas che fuoriesce dai pozzi petroliferi. Una pratica con un pesante impatto sugli ecosistemi e sulla salute a livello locale, ma anche sul clima del pianeta: un impatto a livello mondiale (conteggiando anche il metano liberato in atmosfera senza combustione, ossia il gas venting) di circa 400 milioni di tonnellate equivalenti di CO2, ovvero poco meno della metà degli obiettivi complessivi 2008-2012 dei paesi industrializzati del protocollo di Kyoto.

Nonostante nel paese africano il gas flaring sia illegale dal 1984, la Nigeria, con circa 24 miliardi di metri cubi di gas naturale bruciati in torcia ogni anno (una rilevante perdita anche economica) è seconda al mondo solo alla Russia per gas bruciato o disperso. “Con la differenza – sottolinea Bassey – che in Nigeria il gas flaring è praticato in zone densamente popolate causando nella popolazione asma, attacchi di cuore, leucemia e altri tipi di cancro. Inoltre, il gas flaring provoca il fenomeno delle piogge acide, attraverso la combinazione di ossidi azotati e solforosi col vapore acqueo presente nell’atmosfera”.

“Una modalità di gestione dei pozzi petroliferi che non è nemmeno immaginabile nei paesi occidentali e resta sconosciuta all’opinione pubblica. Tanto è vero che la stampa mondiale segue giorno per giorno le conseguenze dell’incidente del Golfo del Messico ma ignora il disastro quotidiano della Nigeria”. Ha aggiunto la Presidente degli Amici della Terra – Italia.”

Insomma un’illegalità sistematica che, sottolinea Christine Weise, Presidente della Sezione Italiana di Amnesty International, si traduce – come ha stabilito anche una sentenza della Corte suprema nigeriana – in “violazioni di numerosi diritti dell’uomo tra cui quelli alla salute, a un ambiente sano, a un adeguato standard di vita (nel quale sono inclusi il diritto al cibo e all’acqua) e a guadagnarsi da vivere attraverso il lavoro. Le persone colpite – aggiunge la Weise – sono centinaia di migliaia, in particolare i più poveri e coloro che dipendono dai mezzi di sussistenza tradizionali, come la pesca e l’agricoltura.” (vedi anche report in allegato).

A rendere ancora più scandalosa la situazione – ha sottolineato Elena Gerebizza, Development Finance Campaigner della Campagna per la riforma della Banca Mondiale – il fatto che le compagnie, in prima fila Eni che sta lavorando a progetti per eliminare finalmente il gas flaring, “hanno addirittura ottenuto finanziamenti pubblici per smettere una pratica illegale secondo la legge nigeriana: serve una legislazione internazionale stringente, che metta la pratica fuori legge”. Tramite il Clean Development Mechanism infatti le aziende otterranno dei crediti vendibili sul mercato per i progetti che ridurranno il gas flaring. Oltre ad aver guadagnato, continuando questa pratica ormai illegale da 26 anni, prenderanno soldi per terminarla. Caustico il commento di Nnimmo Bassey: “È come se un ladro chiedesse di essere pagato per smettere di rubare”.

 

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