Come ti ‘socializzo’ i danni da petrolio e da nucleare

Per il disastro lungo le coste della Louisiana, BP pagherà una cifra irrisoria rispetto al danno provocato, il resto sarà a carico dei contribuenti. L'industria del petrolio, come quella dell'atomo, non potrebbe esistere  senza scaricare i rischi sul pubblico.

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Il petrolio come il nucleare: se le rispettive industrie dovessero essere tenute a rispondere degli eventuali danni provocati non potrebbero esistere in un mercato liberalizzato. Ecco che, come capita nel nostro sistema economico di stampo liberista, ma solo a metà, si socializzano costi ambientali e perdite economiche, mentre i profitti restano privati. Nasce dal disastro della piattaforma BP nel Golfo del Messico una riflessione sull’economia delle fonti sporche che questa settimana vediamo sviluppata da diversi editorialisti di matrice ambientalista.

Al momento, come sappiamo, per i danni enormi provocati dal greggio che continua a fuoriuscire e che ha raggiunto le coste della Louisiana, BP sarà tenuta a pagare solo 75 milioni di dollari, il tetto massimo di risarcimento per le compagnie petrolifere per la legge Usa. “Una cifra che secondo ogni calcolo coprirebbe a stento i danni causati nella sola prima ora dalla perdita”, commenta Harvey Wasserman su The Huffington Post.

I tentativi in questi giorni di innalzare il risarcimento massimo a carico dei petrolieri, portandolo a 10 miliardi di dollari, d’altra parte, sono stati bloccati da senatori repubblicani al soldo delle compagnie (Lisa Murkowski (R-Alaska) finanziata dall’industria del petrolio e del gas per 225 ila dollari negli ultimi 5 anni e James Inhofe (R-Oklahoma), pagato 564mila dollari.

L’argomento principale contro l’innalzamento dei risarcimenti è che questo avrebbe spinto le compagnie più piccole fuori dal mercato delle trivellazioni off-shore. “Ma se non possono permettersi di assicurarsi contro un danno che possono provocare, perché dovrebbe essere permesso loro di trivellare?”, si chiede David Roberts su Grist.org. L’opposizione all’innalzamento a 10 miliardi del tetto, anch’essa una cifra insufficiente a risarcire dei danni che si stanno verificando in Louisiana – continua – fa capire che neanche i grandi come BP sarebbero in grado di pagare per i disastri che possono provocare.

Il rischio potenziale nelle trivellazioni off-shore è infatti così grande che nessuna compagnia privata potrebbe assumerselo. Allora ecco che arrivano in soccorso i soldi dei contribuenti, come si verificherà per quelli americani a causa della marea nera del Golfo del Messico.

 
Altra industria che non potrebbe sopravvivere senza socializzare i possibili rischi è quella nucleare. In India per far costruire nuove centrali si sta spingendo per una legge che deresponsabilizza i costruttori e fissa un risarcimento massimo di 450 milioni di dollari (Qualenergia.it, Il nucleare? Una catastrofe economica); negli Usa la cifra massima che le aziende devono pagare in caso incidente è di 11 miliardi di dollari. Non occorre dilungarsi per capire che si parla di somme irrisorie rispetto ai possibili danni di un incidente nucleare: Chernobyl, secondo lo studio pubblicato a dicembre scorso dalla New York Academy of Sciences, ha fatto 985mila morti (ma da qui al 2056 dovremmo attendercene altri centinaia di migliaia, per la sola Italia la stima è di circa tremila) e solo in Bielorussia e in Ucraina si sono avuti danni per 500 miliardi di dollari.

Un’industria con rischi tali evidentemente non può farsene carico da sola come dovrebbe avvenire in una situazione di libero mercato, e così governi e industria si accordano per scaricare i rischi sul pubblico. “C’è un nome per i sistemi politici in cui governo e industria si accordano per far guadagnare i detentori del capitale a spese del pubblico: corporativismo“, denuncia Roberts su Grist.org. E continua citando Amory Lovins e la sua visione di un sistema basato su fonti rinnovabili e generazione distribuita come opposto ad uno, quello che ha per protagonisti fossili e nucleare, costruito su di una visione gigantistica e centralistica della produzione di energia.

“Il rischio di perdite (di petrolio, ndr) catastrofiche non può essere eliminato, e non può essere sostenuto tramite  polizze assicurative dell’industria privata. È parte integrante del modello che sia il pubblico a farsi carico dei rischi. Un sistema basato sulle rinnovabili, al contrario, è esente da tali rischi. È più garantito a fronte di imprevisti mentre rischi e  ricompense sono interamente a carico degli attori privati in un mercato competitivo. In ultima analisi è più democratico: non distribuisce solo la produzione di energia, distribuisce anche il potere socio-economico.”

Ma, conclude “anche se (il modello basato su rinnovabili e generazione distribuita, ndr) porta più benefici alla società, il gigantismo è più prezioso per le élites politiche ed economiche. Concentra il potere energetico nelle loro mani”. Niente di nuovo sotto il sole, ma è sempre bene ricordarlo.
GM

21 maggio 2010

 
 
Foto: Greenpeace Usa 2010

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