Spingere la CO2 negli abissi

  • 20 Febbraio 2009

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Riceviamo e pubblichiamo un articolo su un progetto riguardante un procedimento di abbattimento della CO2 presente nell'atmosfera che prevede il pompaggio dell'anidride carbonica nelle profondità marine. L'autore è Giancarlo Moiso.

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In questo periodo stanno emergendo nel mondo diverse idee progettuali per ingabbiare la CO2. Qualenergia.it ritiene utile informare i lettori su queste proposte anche se ritiene opportuno che tutte vadano analizzate con la dovuta cautela per la loro fattibilità tecnica, economica e per i possibili effetti sull’ecosistema / La redazione.

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Un procedimento di abbattimento della riduzione della CO2 poco costoso

Ridurre, quanto più possibile, la quantità di CO2 nell’atmosfera è non solo opportuno ma necessario.
Di procedimenti, proposte, progetti per il “sequestro” del biossido di carbonio, ce n’è già un bel po’ in giro, ne abbiamo letto e ne leggiamo ogni giorno. Tutti progetti piuttosto costosi, anche quelli che appaiono più promettenti, magari perché impostati sull’idea di sequestrare il biossido di carbonio direttamente “alla fonte di produzione”, a esempio dai fumi di scarico delle centrali termoelettriche (che però è solo una parte, poco più di un terzo, della CO2 che produciamo; e per l’altra parte, che facciamo?).

Pure in questi casi si richiedono comunque operazioni complesse: la separazione della CO2 dagli altri gas presenti (aria e vapore acqueo), la sua compressione, o addirittura la liquefazione, per poi convogliarla, pompata attraverso lunghe tubazioni, fino ai siti di stoccaggio, in caverne sotterranee o nelle profondità marine (dove si presume rimarrà confinata, se non per millenni almeno per molti decenni). Tutti procedimenti che implicano costi elevati, tanto da lasciar dubbiosi sulla loro applicabilità. Ma forse c’è qualche strada meno costosa, qualche mezzo più economico.

Il più grande contenitore di CO2 del pianeta è l’acqua degli oceani. Vi è disciolta CO2 per forse 40.000 miliardi di tonnellate, 15-20 volte quella presente nell’atmosfera e biosfera. Nei mari c’è oltre un quintale di CO2 per ogni metro quadro di superficie. Per la più gran parte, però, si trova negli strati superficiali: 1-2 kg per ogni mc nell’acqua dei primi 100 metri di profondità (per il continuo interscambio con l’atmosfera), ma è scarsa, a volte quasi assente, negli strati profondi.
Ciò significa che gli strati profondi (e la profondità media dei mari è di circa 3,5 km) ne potrebbero assorbire, prima di giungere alla densità di saturazione (che è di 1,5 kg/mc a 15 °C; 2 kg/mc a 10°; 2,7 kg/mc a 0°), una quantità enorme: decine di volte la quantità ora presente nei mari; centinaia di volte la quantità presente nell’atmosfera.

In effetti il mare costituisce già attualmente il principale meccanismo omeostatico di regolazione della quantità di CO2 nell’atmosfera: al crescere della tensione (quantità) di questa nell’atmosfera, infatti, ne cresce l’assorbimento da parte delle acque marine. Proprio a tale fenomeno si deve l’assorbimento di una gran parte dell’addizionale CO2 introdotta nell’atmosfera negli ultimi due secoli di civiltà industriale; e fino a qualche decennio fa gli studiosi si chiedevano, facendo “i conti” della CO2 prodotta, dove fosse finita la “parte mancante”; finché si capì che era finita nel mare.
Gli strati superficiali d’acqua assorbono CO2 dall’atmosfera (spesso giungendo a saturazione, specialmente durante le tempeste), cedendola poi, per rimescolamento, anche agli strati profondi. Il processo di rimescolamento verticale delle acque però è lento, tranne che in alcuni luoghi particolari, dove correnti superficiali s’inabissano (un esempio è quello della Corrente del Golfo nel Nord Atlantico). E questo meccanismo omeostatico naturale, che ha funzionato a meraviglia per milioni di anni, non risulta oggi in grado di “tenere il passo” col rapido accumulo di biossido di carbonio nell’atmosfera, generato dall’uso, sempre più intenso (qualcuno direbbe forsennato), di combustibili fossili.

Ma forse gli si può “dare una spinta”.
Appare infatti possibile (e fattibile), con apparati abbastanza semplici e costi energetici moderati (di gran lunga inferiori rispetto a quelli previsti dalle attuali tecniche di “sequestro”), pompare (o forse sarebbe più esatto dire “spingere”) la CO2 nelle profondità marine. E’ la CO2 contenuta, disciolta, nelle acque superficiali. In un metro cubo di acqua superficiale ce n’è da uno a due kg. Quel metro cubo d’acqua, pompato (“spinto”) a qualche centinaio di metri, o anche uno o due km di profondità, si mescolerà alle acque profonde, cedendovi parte della CO2 che conteneva. Le acque profonde, oltre che povere di CO2 sono anche più fredde, per cui la loro capacità di assorbimento dei gas è maggiore. Si tratta, in sostanza, d’imprimere un’accelerazione a quello stesso processo già in atto ma che, per vie “naturali”, ossia per il rimescolamento normale delle acque, richiederebbe secoli (e noi abbiamo un po’ di fretta).

E’ immaginabile anche un meccanismo operante “all’inverso”, ossia di “aspirazione” delle acque profonde verso la superficie, dove, spargendosi, assorbirebbero più facilmente CO2 dall’atmosfera. Può esser tuttavia preferibile, dal punto di vista ingegneristico, il pompaggio delle acque superficiali in profondità.
A prima vista potrebbe sembrare che, se per spostare un kg di biossido di carbonio per un km risulta necessario spostare di altrettanto un metro cubo (1.000 kg) di acqua, l’operazione sia poco razionale, e dissipatrice di energia, rispetto, ad esempio, ai metodi cui s’è accennato sopra, che prevedono il trasporto di CO2 “pura” o quasi, compressa o liquefatta. Invece no. Pompare (o “spingere”) dalla superficie marina a un km di profondità un metro cubo d’acqua, attraverso un condotto di alcuni metri di diametro, richiede ben poca energia: è sufficiente una prevalenza modesta, forse 1/20 di atmosfera (1/2 metro di altezza d’acqua) o poco più.
Lo dimostrano le (un po’ pochine, per la verità) sperimentazioni in alcuni impianti “OTEC” (Ocean Thermal Energy Conversion), in cui, appunto, si adducono grandi quantità di acqua dalle profondità marine. Il convogliamento in profondità di 1 mc/sec d’acqua comporta una potenza (teorica) di 5 kW. Con un lavoro (teorico) di 5 kWh (50 cents di €) si possono inviare in profondità 3.600 mc di acque superficiali, contenenti forse 3-5 tonnellate di CO2, di cui una parte (quanta, però, è difficile da calcolare) rimarrà confinata in loco. Anche se quelle stime sugli impianti OTEC peccassero di ottimismo (il che è molto probabile), rimane comunque un differenziale enorme nei costi rispetto ai vari procedimenti di sequestro della CO2 atmosferica finora proposti.

Come operare
Il convogliamento delle acque superficiali negli abissi può operarsi in svariati modi. Quello esemplificato nella fig. 1 mostra un impianto galleggiante (l’energia per il pompaggio può venir fornita dal vento, un motore diesel o altro) in cui, tramite un’elica, si spinge acqua superficiale in un tubo di lunghezza adeguata, diretto alla profondità, dove da una serie di fori di diffusione (numerosi, a quote diverse) spargerà acqua a elevato contenuto di biossido di carbonio. Il tubo può esser costruito in materiale plastico flessibile, di spessore modesto in quanto, se di peso specifico di poco superiore a quello dell’acqua marina, risulta in gran parte sostenuto da questa e automaticamente sempre in leggera tensione (quindi non “sbandierante”). Ovviamente non dev’essere soggetto a forti sollecitazioni meccaniche: quelle dei moti ondosi; ma queste sono presenti solo in prossimità della superficie, e qui la struttura può venir protetta o irrobustita. Si può dire insomma che valgano, per la costruzione di impianti di questo tipo, le stesse regole di progettazione adottate per le piattaforme o gli impianti eolici off-shore – e quindi l’uso di tecnologie già note e collaudate. Un impianto di tal genere, con un condotto di 5 mt di diametro, può sottrarre all’atmosfera alcune centinaia di migliaia di tonnellate di CO2 l’anno.

Un altro procedimento, esemplificato in fig. 2, richiede condizioni idrometeorologiche particolari: venti costanti ma assenza di moti ondosi violenti (tifoni o simili). Qui ci si affida totalmente all’energia del vento. Energia che può stimolare, accelerandolo, il rimescolamento delle acque di superficie con quelle profonde. L’impianto, come si vede, consiste in grandi fogli (chiamiamoli “sipari” o “tendaggi”) flessibili (di plastica quindi), di dimensioni di alcune centinaia di metri sia in altezza che in lunghezza, sostenuti da supporti galleggianti (grossi tubi di plastica flessibili, cavi e sigillati all’interno). Le correnti acquee superficiali indotte dal vento, impedite nel loro flusso regolare (in orizzontale), vengono costrette, in corrispondenza degli sbarramenti galleggianti, a immergersi, mescolandosi così con le acque profonde, e cedendogli parte della propria CO2.
Altri procedimenti ancora possono essere immaginati, ma il principio informatore rimane lo stesso: forzare il rimescolamento delle acque di superficie (ricche di CO2) con acque profonde (povere di CO2). Nelle profondità marine il biossido di carbonio diffuso rimarrà confinato, depositato, presumibilmente per parecchi decenni: il tempo della “moratoria” sufficiente per mettere in atto nuovi differenti sistemi di produzione di energia, meno inquinanti di quelli attuali.

Possono prodursi alcuni effetti collaterali. Uno può essere l’influenza sui microclimi locali: una (modesta) riduzione delle temperature nelle regioni circostanti questi impianti. Le acque profonde essendo, come s’è detto, più fredde di quelle superficiali, il loro rimescolamento forzoso causa un raffreddamento, insieme con un incremento dell’inerzia termica, della capacità dei mari di fungere da “volano termico”: un effetto magari neanche sgradito, visto che potrebbe persino ridurre gli eventi meteorologici “estremi” – uragani e simili. Un altro può essere l’incremento di acidità delle acque profonde, acidità dannosa a organismi (flora e fauna) sensibili. Tuttavia nelle acque profonde già scarseggia, non solo il biossido di carbonio ma altresì la vita marina. E comunque in molti luoghi profondi esistono già ora condizioni poco propizie alla vita: il Mar Nero, per esempio, al disotto dei 200 metri di profondità è praticamente abiotico, per la consistente presenza di acido solfidrico. Non dovuto a inquinamento umano, bensì naturale.

Di questi procedimenti, ho depositato domanda di brevetto – più che altro per definire una priorità accademica, ché in effetti la materia non si presta (e non sarebbe neppure giusto) alla brevettazione. Una priorità che forse è già incrinata. Recentemente infatti m’è capitato di leggere (su “L’espresso” del 19 giugno 2008), l’accenno a un’azienda americana che forse sta seguendo la stessa via: la Atmocean. Cercando su internet a questa voce troverete progetti d’impianti, se non proprio simili, concettualmente analoghi a quelli da me proposti: impianti, congegni per il rimescolamento forzoso delle acque marine superficiali con quelle profonde.
La strada è tracciata. Può essere proficuo seguirla.

Giancarlo Moiso

20 febbraio 2009 

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