Direttiva rinnovabili, croce e delizia

  • 31 Gennaio 2008

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Con Alex Sorokin, esperto dei mercati e della normativa europea, affrontiamo gli aspetti positivi e le criticità della recente Direttiva europea sulle rinnovabili al 2020.

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Il 23 gennaio è stata presentata a Bruxelles la nuova Direttiva europea sulle rinnovabili. Ne parliamo con Alex Sorokin, direttore di InterEnergy, società di ingegneria specializzata in energia sostenibile, ed esperto dei mercati e della normativa europea.

Ing. Sorokin, quali sono gli aspetti più positivi della proposta di Direttiva europea per le rinnovabili al 2020?
Sicuramente l’aver stabilito obiettivi di sviluppo delle fonti rinnovabili individualmente per ogni singolo Stato membro europeo. Per la verità si tratta della attuazione di una decisione già presa dal Consiglio dei Ministri europei nel marzo scorso, che per l’anno 2020 ha stabilito l’obiettivo vincolante per l’Unione Europa del 20% da fonti rinnovabili. Inoltre, rispetto alla vecchia direttiva EU sulle rinnovabili del 2001 (che copriva solamente l’energia elettrica), la nuova proposta di direttiva copre anche le rinnovabili per la produzione di calore e freddo.
Altro punto importante è la definizione di obiettivi intermedi da rispettare già prima della data traguardo del 2020. Non si gestiranno i target come per il protocollo di Kyoto che consentivano ad ogni paese di trascurare impunemente i propri impegni fino all’ultimo, con il risultato che oramai per l’Italia è diventato impossibile recuperare il ritardo. Stabilendo invece obiettivi intermedi, i paesi europei dovranno rispondere dei loro operati in corso d’opera.

Quali invece sono le criticità principali della nuova Direttiva e i loro possibili effetti?
La principale è la scelta a favore di un sistema a certificati verdi (denominato commercio di Garanzie di Origine). Nelle statistiche europee e anche nello stesso documento di accompagnamento della Direttiva risulta chiaramente che i sistemi incentivanti a “feed in tariff” (in conto energia) si sono dimostrati molto più efficaci nel promuovere lo sviluppo delle rinnovabili e soprattutto meno costosi rispetti ai sistemi a certificati verdi. Sotto questa luce la decisione della Commissione a favore di un sistema a certificati verdi appare incomprensibile, sarebbe come puntare sul “cavallo perdente”.
Secondo le prime bozze della Direttiva, redatte nei mesi scorsi, tutti i paesi avrebbero dovuto attenersi al sistema unico europeo basato sui certificati verdi, anche quelli che avevano raggiunto importanti successi con l’altro sistema, quello a tariffa, come la Germania. Per fortuna la versione pubblicata in questi giorni ha un po’ mitigato questo aspetto. I paesi europei potranno vendere i loro certificati verdi fuori dai propri confini solamente dopo aver raggiunto il proprio obiettivo. Pertanto, se non raggiungono i target prefissati, almeno sulla carta, sembrerebbe che rimarrà valido il sistema di incentivazione interno, cioè quello scelto dal paese stesso. Però al momento è difficile prevedere come funzionerà il sistema europeo. C’è il rischio che possa inficiare negativamente proprio i sistemi nazionali di incentivazione più efficienti.

Gli altri aspetti negativi?
Il metro di calcolo utilizzato che si basa sugli usi finali di energia anziché sulla fonte fossile sostituita. Tecnicamente sarebbe molto più corretto e funzionale prendere come criterio di misura per gli obiettivi la percentuale di fonte fossile sostituita. Le emissioni di CO2 non dipendono dagli usi finali, bensì dalla quantità di fonte fossile sostituita e pertanto non utilizzata. E’ noto che consumando elettricità non si emette CO2. La si emette bruciando petrolio, carbone e gas. Pertanto il consumo finale di energia non è un parametro rappresentativo per le emissioni di CO2 evitate. Quindi la metodologia di calcolo utilizzata è poco appropriata per raggiungere il risultato voluto della difesa del clima.
Il terzo aspetto criticabile riguarda i biocarburanti, in particolare l’effettiva sostenibilità ambientale della filiera a partire dalla coltivazione della materia prima (biomassa). Anche qui si è perso per strada l’obiettivo finale, ovvero la difesa del clima in quanto gli obiettivi stabiliti dalla direttiva non sono definiti in modo da assicurare una effettiva riduzione delle emissioni di CO2.
L’ultimo punto, non meno importante, è la mancanza di sanzioni, aspetto che rende la direttiva poco incisiva nel responsabilizzare gli Stati Membri.

L’obiettivo del 17% per l’Italia è sicuramente impegnativo. L’attuale quadro normativo e di incentivazioni è in grado di creare le condizioni per il raggiungimento dell’obiettivo in 13 anni?
Assolutamente no. L’ultima novità introdotta dalla Finanziaria 2008, certamente da accogliere, prevede un incremento dello 0,75% annuale dell’obbligo di fonti rinnovabili per i certificati verdi, ma si riferisce solamente alla parte elettrica. E’ un passo nella direzione giusta ma è del tutto insufficiente. In questo momento in Italia partiamo da una situazione in cui, espressa in usi finali di energia come vuole la Commissione europea (che ripeto, non condivido), il contributo delle rinnovabili in Italia è meno del 5% (6,7 Mtep). L’Italia parte da una situazione di relativo vantaggio (rispetto alla Germania, per esempio), perchè disponiamo di ampie risorse idroelettriche che coprono circa il 15-16% del fabbisogno di energia elettrica, ma l’elettricità rappresenta solamente il 20% dell’energia finale consumata. La maggior parte dell’energia viene consumata per riscaldamento, calore di processo nell’industria, e nei trasporti. Dal 5% da fonti rinnovabili di oggi dobbiamo arrivare al 17% entro il 2020. Siamo molto lontani da questo obiettivo.

Cosa andrebbe fatto per raggiungere l’obiettivo 2020, anche in termini di efficienza economica generale?
In primis dobbiamo finirla di usare i fondi destinati alle rinnovabili per altri scopi. Penso alle cosiddette “fonti assimilate” e al famigerato CIP6 che andrebbe assolutamente eliminato. Non possiamo più permetterci di disperdere queste enormi risorse. Gli incentivi per l’energia verde vanno usati esclusivamente per le fonti rinnovabili vere.
Poi va detto che la legge finanziaria non è adatta per legiferare su questi temi così complessi. Occorre rivedere e semplificare la legislazione in materia con un testo unico ad hoc per le rinnovabili elettriche e un altro testo unico specifico per quelle termiche (per la produzione di calore e freddo).
Poi occorre intervenire nel vastissimo campo del risparmio e dell’efficienza energetica, che deve diventare d’obbligo per tutti manufatti e dispositivi sul mercato. I certificati bianchi sono utili, ma i loro effetti sull’economia nazionale sono pressoché trascurabili. Infine, bisogna assolutamente intervenire nel settore dei trasporti, con un programma pluriennale su vasta scala, aumentando l’offerta e la qualità del trasporto pubblico, e trasferendo quote crescenti di trasporto su ferro e sulle cosiddette autostrade del mare.

Cip6 e incentivi su altre tercnologie non rinnovabili fanno pensare anche all’attualità e all’aspro dibattito sugli inceneritori.
Infatti. A questo proposito vorrei dire che bisogna finirla con la disinformazione. Mi riferisco proprio alla questione dei cosiddetti “termovalorizzatori”, parola che esiste solamente nella lingua italiana. Negli altri paesi questi impianti si chiamano inceneritori con recupero energetico. Qualcuno sostiene che con questi impianti si aiuta il clima risparmiando la CO2 che altrimenti verrebbe emessa dalle centrali normali per generare la stessa energia prodotta dall’incenerimento dei rifiuti. Effettivamente, rispetto al differimento in discarica si ottiene un piccolo beneficio energetico. Ma questo beneficio si annulla e diventa un danno se lo confrontiamo con il riciclaggio. A conti fatti, riciclando i rifiuti si risparmia di gran lunga più energia (ed emissioni di CO2) di quanto non se ne ottenga bruciandoli. Per non parlare degli agenti inquinanti altamente pericolosi emessi da questi impianti in atmosfera e, finemente, dispersi sul territorio.

31 gennaio 2008

Intervista a cura di Leonardo Berlen

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