Il picco si avvicina

  • 4 Gennaio 2008

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Con il barile a cento dollari numerose analisi ipotizzano il momento del picco del petrolio. GB Zorzoli espone una panoramica di ricerche e dei numerosi fattori che inciderrano sulla scarsità non solo fisica, ma anche economica, dell'oro nero

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Molti, sulla base del successo di Hubbert nel prevedere il momento in cui la produzione di petrolio negli Stati Uniti avrebbe raggiunto il suo massimo per poi declinare, continuano a formulare ipotesi sulla data intorno alla quale si verificherà il picco del petrolio su scala mondiale. Limitarsi a liquidare la questione, come fanno alcuni, ricordando le previsioni smentite (come il 2005 fissato da Kenneth Deffeys, autore di un libro che ebbe una certa notorietà, Hubbert’s peak, The Impending Oil Shortage) sarebbe ingeneroso, ma soprattutto non produttivo.

Innanzi tutto perché si infittiscono le previsioni che collocano il picco del petrolio nel prossimo decennio. E non lo fa soltanto l’Association for the Study of Peak Oil and Gas (ASPO), tacciabile di parzialità, che indica il 2015. A conclusioni analoghe pervengono studiosi come Michael Smith, che nel 2006 per i laboratori americani di Oak Ridge ha prodotto uno studio approfondito (Resource Depletion: Modelling and forecasting oil production). O come Fredrik Robelius, dell’università di Uppsala, che in un lavoro del 2007 di quasi 150 pagine, basato principalmente sugli andamenti dei giacimenti giganti (Giant Oil Fields – The Highway to Oil), arriva a simili previsioni (include anche i contributi delle fonti non convenzionali). In entrambi i casi il picco è previsto prima del 2020.
Un merito di questi due studi è quello di non avere banalmente applicato il modello matematico elaborato da Hubbert nel 1956, ma di avere seguito metodologie autonome e per molti versi più convincenti. Hubbert, infatti, poté avvalersi dei dati geologici, molto accurati, relativi al territorio americano e della serie storica, molto precisa, del petrolio già estratto in USA, mentre lo stesso non può dirsi per le analoghe informazioni disponibili su scala mondiale. Spesso sono imprecise, se non addirittura carenti per mancanza di adeguate indagini sul campo, come accade per diverse regioni di paesi non sviluppati o per le acque molto profonde. Condizioni, queste, che rendono poco attendibili estrapolazioni su scala mondiale del modello di Hubbert.

D’altronde anche un centro scientifico americano noto per le sue posizioni ultraottimistiche in materia di risorse petrolifere, il Cambridge Energy Resources Associates (CERA), di recente si è dimostrato più cauto del solito, limitandosi ad affermare che la produzione mondiale di petrolio raggiungerà il suo picco “solo dopo il 2020”.
Infine, parla con preoccupazione di “picco del petrolio” anche una persona come Marcello Colitti, non solo uno dei massimi esperti in materia, ma per anni convinto sostenitore della disponibilità a lungo termine di risorse petrolifere in grado di soddisfare la domanda mondiale. Quando sulla “Staffetta Quotidiana” del 21 dicembre 2007 scrive che “si comincia a profilare con indizi crescenti una scarsità di petrolio, non immediata ma che sembra avvicinarsi, e minaccia di diventare reale già fra un decennio”, c’è quindi da credergli.
Nel suo articolo Colitti lascia indeterminato di quale picco stia parlando. Et pour cause. Il picco del petrolio che per primo ci potrebbe colpire, può infatti non essere necessariamente quello fisico. Se è vero che le disponibilità di greggio possono crescere ogni qual volta le innovazioni tecnologiche riducono i costi di estrazione oppure l’aumento delle quotazioni del greggio rende competitivo un determinato giacimento, fino a quel momento troppo costoso, il fattore “economia” può giocare anche in direzione opposta. La ricerca e l’estrazione di petrolio in zone del globo necessariamente più ostili, vuoi per le condizioni climatiche e ambientali, vuoi per le profondità a cui si è costretti a scendere; lo sfruttamento di riserve non convenzionali, come gli scisti e le sabbie bituminose; in prospettiva, la onerosa trasformazione di gas naturale in carburante (GTL); la domanda prevalente, in forte crescita, di prodotti petroliferi leggeri per il trasporto, che impone processi di raffinazione più complessi e costosi: tutto questo converge a rendere tendenzialmente sempre più cari sia il greggio sia i suoi derivati.

La scarsità fisica viene insomma anticipata (preannunciata) dalla scarsità economica. Di conseguenza a lungo andare prima di arrivare al picco fisico del petrolio è possibile (forse probabile) che si verifichi un economic peak: non solo la produzione cessa di crescere, ma incomincia a diminuire in quanto si rendono disponibili soluzioni energetiche alternative più a buon mercato. E’ il concetto sintetizzato nella ben nota metafora “l’età della pietra non è finita perché mancassero i sassi”.

Inoltre, ben prima dell’economic peak si possono verificare picchi di altra natura. Al recente WEC di Roma Fathi Birol, chief economist dell’IEA, ha sottolineato con preoccupazione che all’incremento nella domanda mondiale di greggio di 37,5 milioni di barili/giorno (mb/g) previsto fra il 2005 e il 2015, i giacimenti in esercizio potranno contribuire al massimo al massimo con 25 mb/g, lasciando intendere che non sarà facile coprire il corrispondente deficit di 12,5 mb/g. Per ora non sono stati eseguiti i necessari investimenti e non è affatto certo che vengano effettuati in tempo, soprattutto a causa dell’elevato rincaro dei beni capitali e dei servizi richiesti per realizzarli, che ha provocato aumenti eccezionali nei costi dei maggiori progetti di sviluppo (contenendone il numero), e degli ostacoli posti a interventi delle major da parte di molti paesi produttori. Né è comunque scontato che, se attuati, ulteriori investimenti diano i ritorni attesi.

Il tetto alla disponibilità di petrolio che conseguirebbe dalla mancata effettuazione di tali investimenti trova un autorevole riscontro in quanto a fine ottobre 2007 nel corso dell’annuale convegno Oil & Money l’amministratore delegato di Total, Christophe de Mangerie ha affermato: “una produzione mondiale massima di petrolio pari a 100 milioni di barili/giorno rappresenta a mio avviso un’ipotesi ottimistica”, per cui le compagnie petrolifere “dovrebbero avere come obiettivo la riduzione della domanda”. Anche se per de Mangerie questa prospettiva non dipende dall’entità delle riserve esistenti nel sottosuolo e nelle profondità marine, che secondo lui non sono mai state così elevate come oggi, ma dalla capacità dell’industria di produrre petrolio al ritmo voluto, nonché dalla volontà e abilità dei paesi produttori di svilupparle, il risultato finale non cambia.
D’altra parte quelle di de Mangerie e di Colitti non sono posizioni isolate. L’International Oil Daily del 31 ottobre 2007 ci informa che secondo diversi osservatori la produzione di petrolio raggiungerà un massimo intorno al 2012, dopo di che si assesterà a lungo su questo valore, mentre un’eventuale crescita dell’offerta dipenderà soltanto dal contributo dei biocarburanti e dalle fonti non convenzionali: sabbie e scisti bituminosi, che tuttavia, come nel caso delle sabbie canadesi, potrebbe essere limitato da vincoli oggettivi, quale la tendenziale indisponibilità dei quantitativi d’acqua richiesti per l’estrazione degli idrocarburi. Sempre secondo l’International Oil Daily, altri esperti prevedono invece il raggiungimento del classico picco intorno alla stessa data, con una permanenza a tale livello per 15 anni, dopo di che inizierebbe un rapido declino.

Ma non è tutto. Finora sottovalutata, nei prossimi anni potrebbe pesare non poco sui rifornimenti di greggio la diminuzione delle esportazioni da parte di importanti paesi produttori a causa del considerevole aumento della domanda interna, a sua volta provocata da due fenomeni concomitanti: da un lato la crescita demografica, dall’altra l’incremento delle produzioni industriali, ma ancor più dei consumi interni di beni e servizi, grazie all’eccezionale crescita della ricchezza nazionale indotta dall’impennata dei prezzi del petrolio. Secondo uno studio della Banca Mondiale, il tasso di sviluppo economico nel Medio Oriente e nei paesi dell’Africa settentrionale è raddoppiato rispetto ai primi anni ’90 e in Russia l’incremento è ancora maggiore. Alcuni paesi produttori (Bahrain, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti) hanno addirittura superato il consumo pro capite di petrolio degli Stati Uniti.
Le conseguenze si fanno già sentire oggi, ma saranno maggiormente evidenti in un futuro non molto lontano. L’Indonesia non è già più un paese esportatore netto di petrolio, entro cinque anni la stessa situazione si potrebbe creare per il Messico (secondo esportatore verso gli USA) e subito dopo per l’Iran (oggi quarto esportatore mondiale).
La crescita della domanda interna sembra destinata ad assorbire niente meno che il 40% dell’aumento della produzione dell’Arabia Saudita fra oggi e il 2010. Secondo stime attendibili la crescita complessiva della domanda interna di petrolio nei paesi membri dell’OPEC, nella Russia e nel Messico dovrebbe ridurre le loro esportazioni di greggio di almeno 2,5 milioni di barili al giorno entro il 2010. Può sembrare una quantità modesta, se raffrontata con l’attuale domanda mondiale intorno agli 85 mb/g, ma quando nel 2002 uno sciopero dei lavoratori venezuelani del settore ridusse del 3% l’offerta globale di petrolio, in poche settimane il suo prezzo salì del 26%.
Se allunghiamo lo sguardo alla prossima decade, le previsioni ci dicono che quasi certamente molti paesi produttori di petrolio, fra cui Arabia Saudita, Kuwait e Libia, raddoppieranno la domanda interna di greggio entro il 2017.

Non va infine trascurato un altro aspetto del problema. Le previsioni standard dell’IEA sulla crescita della domanda di petrolio si basano sull’ipotesi di un incremento medio del PIL di Cina e India di almeno quattro punti inferiore all’attuale, assunzione, almeno per i prossimi anni, niente affatto conservativa. Soltanto nel World Energy Outlook 2007, l’IEA ha presentato per la prima volta anche uno scenario che ipotizza una crescita più spinta in questi due paesi. Malgrado il tasso assunto sia inferiore a quello effettivo di oggi, i risultati ottenuti sono preoccupanti in termini di crescita della domanda di combustibili fossili e del conseguente impatto ambientale.
Non stupisce quindi che dalla presentazione dell’Outlook fatta recentemente a Roma da Birol sia trapelato il sospetto che “forse” anche lo scenario di rapida crescita potrebbe venire scavalcato dalla dinamica reale. Se a India e Cina aggiungiamo Brasile, Argentina e Sud Africa, senza trascurare i segnali di risveglio economico in molte altre parti del Continente Nero, non c’è da stare allegri. Anche perché al cambiamento paradigmatico per quanto concerne la domanda (oramai pilotata da Cina e India) se ne è aggiunto un altro: la produzione di petrolio e di gas è sempre di più nelle mani di happy few, i paesi membri dell’OPEC e la Russia. Insomma, dal lato della domanda come dell’offerta il gioco non è più nelle mani dei paesi ad elevato sviluppo.

A tutto questo possiamo aggiungere l’effetto delle cosiddette aree petrolifere a rischio, oggi in numero così elevato da rendere molto probabile che almeno in una di queste si verifichi a breve una crisi in grado di compromettere, in parte o in toto, la relativa disponibilità di petrolio. Di conseguenza queste aree possono essere fatte rientrare fra i fattori strutturali che determinano una tendenziale scarsità del greggio.

Infine, non va mai dimenticato che il mondo non consuma petrolio, bensì prodotti petroliferi. Il greggio va dunque raffinato, ma l’attuale scarsa capacità di raffinazione fa sì che basti il fuori servizio di una importante raffineria per mettere in crisi il sistema, evento che tende a verificarsi con crescente frequenza, in quanto gli impianti sono quasi tutti molto vecchi, circostanza che aumenta la probabilità di guasti e il numero di manutenzioni programmate. D’altra parte gli investimenti in nuove raffinerie a causa dell’abbondanza di capitali disponibili e dell’assenza di opposizioni alla loro realizzazione sono quasi tutti localizzati in paesi produttori di petrolio, con il risultato di accrescere da un lato la dipendenza dei paesi consumatori anche per i prodotti finiti, dall’altro di allargare anche per questi ultimi le aree a rischio.
Proviamo a mettere in fila le situazioni fin qui esaminate. Quanti possibili picchi (o tetti) alla produzione di petrolio ne possono derivare, senza che necessariamente si arrivi alla effettiva scarsità fisica?
In sintesi, passare troppo tempo a bisticciare sulla data del picco fisico del petrolio rischia di farci fare la fine dei dotti di Bisanzio, intenti a dibattere su quanti angeli potessero stare seduti sulla capocchia di un spillo mentre la città era stretta d’assedio da parte delle truppe del sultano.

G.B. Zorzoli

L’articolo verrà pubblicato sul primo numero del 2008 della rivista QualEnergia, completo di grafici e con ulteriori aggiornamenti.

4 gennaio 2007

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