Nei progetti per Kyoto l’Italia non c’è

  • 13 Dicembre 2007

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L'Italia praticamente assente nei meccanismi di progetto previsti dal Protocollo di Kyoto (CDM e JI), un aspetto che ha connotazioni imprenditoriali, industriali e finanziarie. Un articolo di Andrea Marroni.

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Dall’analisi dell’attuale utilizzo dello strumento del Clean Development Mechanism (CDM), disciplinato all’art. 12 del Protocollo di Kyoto, risultano dati sorprendenti (fonte: www.cdm.unfccc.int e www.cdmpipeline.org) in termini di potenziale sviluppo imprenditoriale in ambito internazionale per società che operano nel settore delle fonti rinnovabili di energia, dell’efficienza energetica e, più in generale, della cosiddetta “low carbon economy”.

Ad inizio novembre 2007, erano circa 2600 i progetti in corso di realizzazione, compresi quelli in fase iniziale. Sono 390 sono i progetti per i quali sono già stati “rilasciati” crediti di carbonio, per un totale di circa 91.790.807 Certified Emission Reductions (CERs).

L’Italia non risulta essere protagonista di questo fenomeno che ha connotazioni imprenditoriali, industriali e finanziarie. A parte ENEL, che in Cina in particolare si è avvalsa di una positiva azione istituzionale del Ministero dell’Ambiente italiano, sono pochi i soggetti privati che stanno riuscendo a proporsi come attori pro-attivi in progettazione e realizzazione di iniziative CDM.
La scelta di perseguire esclusivamente il canale multilaterale (demandando ad una istituzione finanziaria internazionale, la Banca Mondiale) per l’acquisizione di CERs non è risultata sufficiente.
Si deve sottolineare l’urgenza di affrontare il tema della efficace promozione dei meccanismi di progetto previsti dal Protocollo di Kyoto (CDM, ma anche Joint Implementation), con una visione organica che coinvolga tutto il sistema produttivo e industriale, anche per evitare situazioni paradossali di imprese italiane che sviluppano progetti eleggibili per i meccanismi di cui agli art. 12 e 6 del Protocollo di Kyoto e non ne hanno consapevolezza.

Per comprendere in maniera anche più esaustiva l’entità della attuale lacuna italiana, dobbiamo considerare i seguenti due elementi:
1) Tra i 58 Carbon Funds oggi attivati (fonte: Cassa Depositi e Prestiti Francese), non risulta una presenza di gestori e/o investitori italiani. L’Italian Carbon Fund presso Banca Mondiale è a prevalente natura pubblica (vi è una minore partecipazione privata) e, anche alla luce delle recenti determinazioni governative, sembra aver esaurito la propria operatività.
2) Mentre su scala globale sono numerose le neonate società di consulenza che supportano i project developers e gli investitori nella redazione della documentazione progettuale (c.d. CDM/PDD) e nella preparazione dei business plan, in Italia i soggetti che possono svolgere questa attività sono ancora pochi.

La capacità di fornire adeguati strumenti finanziari (la c.d. finanza di progetto richiede una elevata competenza economico-progettuale), nonché servizi di consulenza applicati a metodologie e procedure riconosciute a livello internazionale sono conseguenti alla presenza competitiva di un apparato economico–produttivo e istituzionale che sappia muoversi in un contesto globale, offrendo opportunità di profitto, a partire dal settore dei servizi ad alto valore aggiunto. Si pensi soltanto, per gli aspetti legali, alla complessità della contrattualistica per la compravendita dei crediti di carbonio o agli arbitrati internazionali.

Andrea Marroni

13 dicembre 2007

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