Petrolio senza futuro

  • 17 Luglio 2007

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Riportiamo integralmente l'intervista a Fatih Birol, direttore degli Studi Economici della IEA pubblicata su Le Monde. Un quadro su domanda e offerta mondiale di petrolio che fa temere una grave crisi energetica per l'umanità.

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Riportiamo, integralmente tradotta, l’intervista pubblicata lo scorso 27 giugno su LeMonde.fr, a Fatih Birol, direttore degli Studi Economici dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA). Il titolo dell’intervista di Matthieu Auzanneau è “Senza l’oro nero iracheno, il mercato petrolifero dovrà affrontare un muro da qui al 2015”.
Il quadro tracciato dall’autorevole esponente del settore energetico mondiale è comunque molto più complesso e carico di preoccupazioni. Ogni responsabile politico di ogni paese del pianeta dovrebbe prendere coscienza di quanto dichiarato da Birol. Per quanto riguarda il nostro paese, non ci risulta che sui giornali italiani ci sia stata una minima eco dell’intervista, così come non si fa quasi mai cenno alla crescente domanda di petrolio e alla conseguente pressione sull’offerta che molto presto porterà al cosiddetto “picco”.

LeMonde.fr – Nel settembre del 2005, dalle colonne de Le Monde, aveva lanciato questo avvertimento ai paesi consumatori dell’oro nero: “Uscite dal petrolio”. Ha la sensazione di essere stato ascoltato?
Ogni giorno, il mercato petrolifero diventa più difficile a causa della velocità della crescita e della concentrazione della produzione in un piccolissimo numero di paesi. Dal 2005, il rialzo dei prezzi del barile si è confermato: il prezzo attuale, vicino ai 70 $, è un segnale importante per i grandi paesi consumatori.

L’economia ha accettato quasi senza difficoltà questo aumento del prezzo del barile.
Ha ragione, l’economia ricca l’ha accettato. Ma il mondo non si ferma ai paesi ricchi. L’Africa è in grande difficoltà. Il debito cresce per acquistare petrolio. Per le generazioni future, questo ha gravi conseguenze. Ma il fattore energetico e il deficit crescono anche negli Stati Uniti, per esempio. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea tentano di utilizzare il petrolio molto più efficacemente, in modo di ridurre l’incremento della domanda di petrolio. Dunque, c’è stata sicuramente una reazione da parte dei paesi consumatori.

Questa reazione è adeguata rispetto ai pericoli che lei prevede?
L’uscita dal petrolio sale poco a poco nell’agenda dei paesi OCSE. Ma bisogna sottolineare che una grossa parte della crescita della domanda viene dalla Cina e, in una misura minore, dall’India. La Cina ha al momento 70 veicoli per 1000 abitanti, contro 680 in Europa e 860 negli USA. Se i cinesi volessero recuperare questo divario, cosa accadrà?

Esistono le capacità di produzione per rispondere a un tale aumento della domanda?
Da oggi al 2015, il mercato e l’industria del petrolio saranno seriamente messe alla prova. Tra cinque o dieci anni, la produzione petrolifera non OPEC raggiungerà un massimo prima di cominciare a diminuire, in mancanza di riserve sufficienti. Ogni giorno ci sono prove di questo fatto. Allo stesso momento ci sarà il picco dell’espansione economica della Cina. I due eventi coincideranno: l’esplosione della crescita della domanda cinese e la caduta della produzione dei paesi non OPEC. Il nostro sistema petrolifero sarà in grado di rispondere a questa sfida, questa è la domanda.

I dirigenti cinesi hanno la volontà e la capacità di frenare la loro domanda di petrolio?
Questa volontà esiste. Attivare una politica energetica radicale è più facile in Cina che in un paese che abbia, diciamo, un regime politico differente. Dall’altro lato, i cinesi desiderano approfittare dello stile di vita occidentale. Un cinese dice: “se ho il denaro, perché non devo acquistare un automobile?”. Penso che il governo cinese non potrà fare di meglio che frenare questa accelerazione: ci sarà comunque sempre una fortissima crescita della domanda di petrolio. L’industria del petrolio deve considerare questo fatto e prendere le contromisure necessarie.

Si può prevedere quale sarà il ritmo di questa crescita?
E’ un dato sconosciuto: qual è il potenziale di crescita cinese per i prossimi 10 anni? 6% all’anno, 7%, 10%? La differenza di qualche punto avrà implicazioni molto differenti nel mondo.

I biocarburanti rappresentano una risposta a questa sfida?
Ancora una volta, bisogna guardare le cifre, piuttosto che ascoltare la retorica. Molti governi incoraggiano il consumo dei carburanti agricoli, soprattutto in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti. Alcune di queste politiche non sono basate su una razionalità economica solida: i biocarburanti resteranno molto costosi da produrre. Ma anche se queste politiche si realizzassero, dobbiamo pensare che la parte dei biocarburanti al 2030 rappresenterà solamente il 7% dell’insieme della produzione mondiale di carburanti. Per raggiungere questo 7%, servirà una superficie agricola equivalente alla superficie dell’Australia, più quella della Corea, del Giappone e della Nuova Zelanda…

La concorrenza con la superficie dedicata all’agricoltura tradizionale rischia di avere delle conseguenze sui prezzi dei raccolti.
Sì, sta accadendo già, e non è un fatto positivo. Inoltre, ci sono anche delle difficoltà legate all’ambiente: sempre più studi dimostrano che i biocarburanti non riducono automaticamente le emissioni di gas a effetto serra, rispetto al petrolio. Anch’essa una grande preoccupazione. Allora, per queste ragioni sia economiche che ambientali, il 7% della produzione totale di biocarburanti è una cifra molto, molto ottimistica. I biocarburanti non sostituiranno mai il petrolio dell’OPEC, come alcuni sperano. Il loro contributo resterà marginale.

Quale può essere l’apporto di nuovi giacimenti in Africa?
Quello che ci si aspetta dall’Africa non ha niente di rivoluzionario: qualche centinaia di migliaia di barili al giorno in più qua e là nell’area dell’Africa dell’Ovest. Ciò non cambierà fondamentalmente le cose.

Allora, da dove possono venire le nuove capacità di produzione?
I due soli paesi che possono veramente cambiare il corso dei giochi sono l’Arabia Saudita e l’Iraq. Possono portare sul mercato un volume di greggio supplementare significativo, se lo desiderano. Ma a quali condizioni? Qui c’è un grosso punto interrogativo. Sconosciute sono le cifre sulle riserve.

Ci sono delle ragioni per aspettarsi delle brutte sorprese da questo lato?
Credo che il governo saudita parli di 230 miliardi di barili di riserve. Non ho ragioni ufficiali per non crederci. Tuttavia l’Arabia Saudita, come gli altri paesi produttori e le aziende internazionali, dovranno essere più trasparenti nel presentare le loro cifre. Poiché il petrolio è un bene di importanza cruciale per tutti noi ed è un nostro diritto sapere, secondo gli standard internazionali, quanto petrolio ci resta.

C’è un rischio a breve termine?
Ci si basa sull’ipotesi di un tasso medio di declino della produzione dei campi petroliferi esistenti dell’8% annuo. E’ già molto: per un dollaro investito al fine di aumentare le estrazioni, bisogna investirne tre per compensare questo declino. Ma cosa succederebbe se, a conti fatti, il tasso di diminuzione sarebbe del 9%. La quantità supplementare di petrolio che bisognerebbe trovare per compensare la differenza è uguale alla crescita dei consumi di petrolio dei paesi dell’OCSE prevista da qui al 2020.

L’Arabia Saudita riconosce un declino rapido di molti dei suoi principali campi.
Posso confermare che l’Arabia Saudita è capace di raggiungere una capacità di produzione di 15 milioni di barili al giorno da qui al 2015, contro i 12 di oggi, conformemente all’impegno del ministro del petrolio saudita, Alì Al-Nouaïmi. Ma questi 3 milioni di barili aggiuntivi sono poca cosa per affrontare l’incremento della domanda mondiale di petrolio (oggi è di 83 milioni di barili/giorno).

E l’Iraq?
Se la produzione non aumenta in Iraq in maniera esponenziale da qui al 2015, avremo dei grossi problemi, anche se l’Arabia Saudita rispetterà i suoi impegni. Le cifre sono molto semplici, non c’è bisogno d’essere un esperto. Basta saper fare una sottrazione. La Cina crescerà molto rapidamente, l’India anche, e ciò che progetta l’Arabia Saudita, i 3 milioni di barili in più, non basterà neanche per rispondere all’aumento della domanda cinese. Ma vista la situazione attuale in Iraq, è molto improbabile che questo paese arrivi alla sua capacità ottimale di produzione.

Se questa situazione migliorasse radicalmente, quanto tempo servirebbe all’industria petrolifera irachena per raggiungere la sua capacità ottimale?
Gli ufficiali iracheni dicono da 3 a 5 anni. Ne sanno più di me. Anche se ciò che dicono è esatto e che tutto andrà per il meglio in Iraq, sarà in ogni caso un lungo processo. Quindi, lo ripeto, l’industria del petrolio dovrà affrontare un test molto serio da qui al 2015: con il declino della produzione dei paesi non OPEC e il picco della crescita della Cina, il fossato tra offerta e domanda si allargherà in modo significativo.

Cosa cambierà per le grandi compagnie petrolifere private in questa nuova situazione che sarà sempre più dominata dal cartello dei paesi produttori?
Queste “majors” (Exxon, Chevron-Texaco, Shell, BP e Total) saranno in difficoltà. Non avranno più accesso alle nuove capacità di produzione. Devono ridefinire le loro strategie, altrimenti se resteranno concentrate sul petrolio, dovranno accontentarsi di mercati di nicchia.

Lei afferma che di “majors” non ne rimarranno a lungo?
E’ ciò che dico. Malgrado il forte aumento del prezzo del barile, che gli permetteva di investire, le grandi compagnie petrolifere non hanno potuto ricostituire le loro riserve!

Quindi, se le cose non migliorano in Iraq…
…c’è un muro, una grande prova davanti a noi, se le potenze occidentali, così come la Cina e l’India, non rivedono le loro politiche energetiche in modo sostanziale, tassando di più il petrolio, ricercando più efficienza energetica.

Non si intraprende veramente il cammino. Il consumo mondiale di petrolio cresce sempre più rapido.
Sfortunatamente, ci sono molte parole e pochi fatti. Spero veramente che le nazioni consumatrici comprenderanno la gravità della situazione, e mettano in atto politiche molto forti e radicali per rallentare l’incremento della domanda petrolifera.

Un simile passo giocherebbe a favore della lotta contro il riscaldamento globale, una lotta dai risultati ancora molto incerti.
Credo che ci siano i modi per combattere il riscaldamento globale. Ma bisogna essere chiari: se volete risolvere il problema del riscaldamento globale, è impossibile farlo senza l’India e soprattutto senza la Cina, che sta per diventare il primo paese per emissioni di gas serra. La Cina è la chiave.
I cinesi, da qui al 2030, potranno emettere più di due volte anidride carbonica dell’insieme dei paesi OCSE. Non avrebbe alcun senso prendere misure se la Cina non vi partecipasse.
Un esempio: l’Europa si è impegnata a ridurre le sue emissioni del 20% al 2020. Alcuni dicono che è realistico, altri che non lo è. Ma la questione non è questa. Al ritmo attuale, la Cina non avrà bisogno che di un anno e mezzo per emettere il 20% delle emissioni che l’Europa intende tagliare!

Lei incontra alti responsabili cinesi. Il clima è una delle loro maggiori preoccupazioni?
La prima preoccupazione dei dirigenti cinesi è la crescita e l’efficienza economica. Sicuramente, essi guardano ai problemi ambientali, ma sono i problemi locali che li preoccupano maggiormente. L’inquinamento dell’aria delle città è ai loro occhi più importante dei cambiamenti climatici. Ciò detto, essi prendono il riscaldamento del pianeta seriamente, ma penso che il primo passo deve essere fatto dai paesi occidentali, che dovranno offrire la loro assistenza e dare delle buone ragioni alla Cina affinché essa si associ alla lotta.

Traduzione curata da Leonardo Berlen

3 luglio 2007

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