Uno strumento per l’emissione

  • 30 Marzo 2006

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Emission trading e settore elettrico. Considerazioni elementari su uno strumento importante

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di Matteo Leonardi

Dal primo gennaio del 2005 per importanti attività produttive, tra le quali la generazione termoelettrica, le strategie di produzione devono fare i conti con l’emissions trading.
Che nel nostro Paese questo non sia ancora avvenuto è in prima istanza addebitabile ai ritardi nell’allocazione delle quote, il decreto di assegnazione è solo del febbraio 2006, ma è principalmente dovuto, nello specifico del settore elettrico, ad un fortissimo, ed ancora non colmato, ritardo da parte di delle amministrazioni pubbliche centrali di comprendere i meccanismi di funzionamento dei mercati elettrici a seguito della liberalizzazione e di accettare che su di essi si sovrappongano meccanismi di mercato di regolazione ambientale.

L’emissions trading del resto è uno strumento complesso dal momento che rappresenta la prima esperienza di un mercato sopranazionale di beni ambientali creato da una struttura politica.
Il progetto dell’Unione Europea è estremamente ambizioso e si sovrappone a mercati elettrici che a dieci anni dalla direttiva del 1996 stanno ancora faticosamente trovando un loro assetto tra monopoli e concorrenza. Estremamente ambizioso, raggruppa settori industriali tra loro differenti sia per tecnologie di produzione, sia per prodotti che per organizzazione dei mercati. L’emissions trading (ET) accomuna Paesi che non hanno ancora raggiunto un’integrazione dei mercati energetici ed i cui fondamentali sono caratterizzati da forti differenze. Mercati maturi che hanno già completato il rinnovamento del parco impianti con mercati ancora inefficienti, mercati saturi con mercati in forte crescita, mercati prevalentemente amministrati con mercati ampiamente liberalizzati.
Un meccanismo di regolazione ambientale fortemente voluto dall’Unione Europea tanto da avere anticipato l’approvazione stessa del protocollo di Kyoto su scala internazionale.
Ma al di là del nome comune con uno dei meccanismi flessibili riconosciuti dal protocollo di Kyoto (ET, CDM, JI), l’emissions trading europea rappresenta una prevedibile evoluzione della politica energetico ambientale dell’Unione Europea intenzionata da tempo ad introdurre strumenti per internalizzare i costi ambientali delle attività energetiche.

Nei paragrafi che seguono introdurremo brevemente il meccanismo dell’emissions trading europea focalizzando l’attenzione sulle modalità di formazione del prezzo delle quote e sui comportamenti delle imprese, in particolar modo elettriche, nel recepire la normativa. Quindi ripercorreremo in breve i punti più interessanti del faticoso iter di allocazione delle quote nel nostro paese, concludendo con un giudizio sul totale delle quote allocato ed una qualche considerazione sul secondo periodo di allocazione.

Cos’è l’ET, come funziona, quanto costa
L’Et è un meccanismo di regolazione ambientale detto di cap and trade. Significa che il regolatore sulla base di un obbiettivo di contenimento delle emissioni fissa per un determinato periodo un tetto di permessi (cap) da distribuire agli operatori i quali, a seconda delle loro esigenze, li contratteranno.
I permessi corrispondono al diritto di emettere una tonnellata di CO2 in atmosfera e sono distribuiti per due distinti periodi 2005-2007 e 2008-2012, (questo secondo corrispondente al primo periodo di verifica degli obiettivi del protocollo di Kyoto).
Alla fine di ciascun anno i singoli impianti dovranno restituire all’autorità competente un numero di crediti corrispondente alle emissioni effettive. Se ne avranno in eccesso le potranno vendere e viceversa, se in difetto le dovranno comprare. La sanzione per non ottemperare all’obbligo è di 40 € a tonnellata nel primo periodo e di 100 €, nel secondo. Pagare la sanzione non esime l’operatore dal consegnare le quote. Tutti i permessi di tutti i settori di tutti i paesi per tutti gli anni sono equivalenti, dunque un permesso di emissione di un cementificio polacco può essere annullato da un impianto termoelettrico spagnolo. I crediti degli anni successivi possono essere usati per ottemperare all’obbligo degli anni precedenti. La sanzione non rappresenta il prezzo di riferimento per i permessi di CO2. A seguito della direttiva 101/04 i crediti derivati da progetti di Clean Development Mechanism e di Joint Implementation potranno essere convertiti in crediti per ottemperare all’emissions trading europeo.
L’allocazione delle quote è gratuita per tutti e due i periodi ad eccezione di una discrezionalità del 5-10% da parte dello stato membro. Assumendo che siano distribuiti in tutta l’Unione Europea un numero di permessi inferiori alle effettive esigenze delle imprese, altrimenti del resto il meccanismo non avrebbe senso, tutte le quote avranno un valore corrispondente al costo di riduzione delle emissioni che permetterà alle imprese di rientrare nel tetto allocato all’origine.
La gratuità dell’allocazione, è importante sottolinearlo, è ininfluente nel definire il prezzo della quota. Il prezzo è dato dai costi di abbattimento delle emissioni. Per il 2005 tale prezzo è risultato equivalente al differenziale di costo della generazione a gas naturale rispetto a quella a carbone, circa 20 € a tonnellata nei mercati europei. Ovvero ricevendo 20 € a tonnellata di CO2 evitata ci sono operatori disposti a non produrre un kWh a carbone.
Il valore delle quote ha seguito per tutto l’anno gli andamenti dei prezzi relativi tra gas e carbone. Se il prezzo del gas aumentava e quello del carbone rimaneva stabile il valore della quota di CO2 aumentava, e viceversa.
Questo sembra indicare che il mercato ritiene che in Europa la strategia per rientrare nel tetto di emissioni è la sostituzione di combustibile di generazione nel settore termolettrico.
In seguito, anche a seconda dei risultati del mercato nel primo anno e dunque alla conoscenza della differenza tra necessità dei settori (domanda) e quote allocate (offerta), è probabile che siano altre strategie di abbattimento a determinare il prezzo delle quote. Ad esempio investimenti a lungo termine (ed in questo sarà molto interessante osservare se l’ET sarà in grado di stimolare i produttori elettrici ad avanzare progetti di efficienza in accordo coi consumatori finali) o progetti CDM in paesi in via di sviluppo.

L’opportunità di incassare la quota di CO2 anziché produrre, nel nostro caso energia elettrica, introduce il concetto di costo opportunità. Ovvero dato un valore della quota, il produttore deve essere sicuro che quando vende il suo prodotto, ad esempio un kWh, i suoi ricavi siano almeno equivalenti a quelli che avrebbe avuto se non avesse prodotto e venduto la quota.
Ne deriva che necessariamente i prezzi dell’energia elettrica debbano inglobare i costi opportunità delle quote. Con un prezzo di 20 €, la generazione a carbone ha un costo opportunità di circa 18€ (ovvero ogni MWh che genero determina l’annullamento di 0,91 quote) mentre quella a gas naturale in un ciclo combinato di poco meno di 8 €(ovvero 0,396 quote a MWh).
Questo non significa necessariamente che i prezzi dell’energia aumentino del costo opportunità ma semplicemente che il produttore quando vende il proprio kWh deve essere sicuro che l’opporunità di stare sul mercato sia superiore ai 18 € nel caso del carbone e di 8 € nel caso dei cicli combinati. Altrimenti preferirebbe non produrre.
In mercati scarsamente concorrenziali, quali quello italiano, i prezzi sul mercato determinati dalle strategie di profitto dall’operatore dominante, Enel, sono generalmente maggiori al costo opportunità della quota.
Quindi tutti gli operatori terzi non hanno alcuna convenienza (con l’eccezione di alcune ore notturne e pochi periodi dell’anno) ad esprimere il costo opportunità nelle loro offerte. Dal canto suo Enel potrebbe ricaricare le proprie offerte del costo reale o del costo opportunità o di qualsiasi alto costo il regolatore gli permetta dal momento che risulta ancora l’operatore indispensabile per importanti periodi della giornata.
A tale proposito è da rilevare che rimangono del tutto prive di fondamento metodologico le assunzioni dell’AU di un costo di ET pari a 1,6 €/MWh e dell’autorità per l’energia a 1-2 €/kWh, almeno che diversamente spiegato dalle stesse.
In breve i prezzi finali dell’energia elettrica ingloberanno necessariamente e giustamente il costo opportunità delle quote di CO2 anche se le quote sono state assegnate ai produttori a titolo gratuito.
Un concetto questo abbastanza semplice (l’affitto di una casa ereditata dalla nonna non è inferiore all’affitto di una casa acquistata) ma che fa fatica ad essere compreso, forse semplicemente perché ritenuto iniquo.
Non lo è affatto. Rappresenta, come anticipato, lo strumento di internalizzazione dei costi ambientali ritenuto economicamente più efficiente da parte dell’Unione Europea. L’alternativa sarebbe stata una cabon tax, per altro ancora presente in Italia, anche se sterilizzata ad aliquote del tutto campate per aria del 1999. Eventualmente iniquo è la distribuzione a titolo gratuito delle quote. Il valore delle quote moltiplicate per il loro prezzo rappresenta infatti, per effetto del costo opportunità, un’area potenziale di profitto per le imprese in caso di allocazione gratuita ed rappresenterebbe una consistente entrata per lo Stato se assegnate a pagamento.
L’assegnazione gratuita è stata fortemente voluta delle associazioni di imprese a livello europeo, è facile capirlo, (soprattutto per i settori non elettrici che si trovano ad operare in mercati esposti alla concorrenza internazionale) tuttavia permette, in particolare in mercati non competitivi, di limitare gli impatti sui prezzi finali (sempre se l’autorità che vigila sul mercato è sufficientemente attenta). Se infatti è vero che, in presenza di un operatore dominante, l’opportunità di rimanere sul mercato grazie ai prezzi da esso praticati spinga gli operatori a non caricare le proprie offerte dei costi opportunità, sarebbe inevitabile che lo facessero se avessero sostenuto dei costi reali nell’acquistare le quote.

Assegnazione delle quote:
Il processo di assegnazione delle quote di ET ha evidenziato una certa confusione in tema di regolazione ambientale del settore elettrico da parte dell’amministrazione pubblica.

Gli obiettivi di riduzione del settore termoelettrico nell’ambito del protocollo di Kyoto sono stati ufficialmente presentati in occasione della pubblicazione della delibera CIPE del dicembre 2002. La delibera individuava un tetto massimo di emissione nel settore termoelettrico al 2005 di 124 Mtonn.
Nel primo piano presentato prima dell’estate 2005 il ministero dell’ambiente e il ministero delle attività produttive assegnavano al settore termoelettrico 138,2 Mtonn. A fronte della richiesta di diminuzione da parte della Commissione Europea tale tetto veniva abbassato 131,06 Mtonn nel dicembre 2005 e successivamente approvato in decreto a 130,4 Mtonn. A queste si devono aggiungere 40 Mt di CO2 riferite alla riserva. Quote attribuibili al settore elettrico sono inoltre comprese nella voce “altre attività”, si tratta sostanzialmente di autoproduttori o di generazione elettrica connessa ad altri processi industriali.

In realtà anziché applicarsi ad una metodologia efficace e trasparente di assegnazione, l’amministrazione pubblica si prodigava per oltre un anno in tentativi di eludere la direttiva attraverso il tentativo di gestire il meccanismo di emissions trading con il cosiddetto ex-post per il settore elettrico.
In base all’ex-post gli operatori elettrici avrebbero dovuto restituire all’autorità competente o avrebbero da essa ricevuto a fine anno un quantitativo di quote pari alla differenza tra l’assegnazione iniziale e le emissioni effettive valorizzate ad un coefficiente unico di emissione e corrispondente alla media di 550 gCO2/kWh del parco nazionale.
La scelta del coefficiente unico avveniva postuma, agli inizi si pensava addirittura ad un coefficiente corrispondente all’emissione effettiva di ciascun impianto, cosa che avrebbe totalmente neutralizzato l’ET.
Il meccanismo ex post a coefficiente unico di per sé, pur esplicitamente bandito dalla direttiva 87/2003, avrebbe avuto un qualche vantaggio in termini economici e non avrebbe necessariamente annullato i contenuti ambientali del meccanismo (anche se probabilmente sarebbe stato meglio fissare il coefficiente unico al valore inferiore del gas naturale a ciclo combinato390 gCO2/kWh). Tuttavia rendeva il circuito italiano non compatibile con il mercato europeo e soprattutto ribaltava la realtà dei fatti.
I prezzi in Italia erano e sono alti per mancata concorrenza, per la quale nel frattempo non si faceva nulla, (si veda in particolare la contemporaneità del decreto Marzano, totalmente ininfluente in termini di concorrenza per il settore), e non per l’applicazione della direttiva dell’emissions trading.
Direttiva che avrebbe sì determinato un aumento dei prezzi, ma come illustrato in precedenza, ad un livello comunque inferiore all’attuale prezzo praticato dall’operatore dominante e lo avrebbe fatto in giustificazione del principio del “chi inquina paga” alla base di tutta la legislazione energetico ambientale dell’Unione Europea parallela al processo di liberalizzazione dei mercati.
Eppure il legislatore non credeva ai suoi occhi: un meccanismo che permetteva di neutralizzare gli effetti dell’ET, riallineando l’Italia ai prezzi del resto d’Europa in cui la direttiva veniva recepita seriamente, senza dover procedere ulteriormente nel processo di liberalizzazione! Slurp!

Epilogo e considerazioni finali
Una volta scartata l’opzione dell’ex-post per intervento della Commissione emergevano ancora delle ambiguità circa la comprensione delle amministrazioni pubbliche del processo di liberalizzazione e delle implicazioni dei mercati ambientali.
Si ipotizzava che gli operatori del settore elettrico avrebbero dovuto adottare un sistema di pooling su base volontaria, ovvero di accordo settoriale privato simile al meccanismo ex-post.
Il legislatore pensava ancora in ottica di impresa elettrica pubblica. L’impresa privata persegue (giustamente) la massimizzazione del proprio profitto e non aspira affatto ad autoneutralizzare le proprie opportunità di incrementare i guadagni (attraverso il costo opportunità) riducendo i prezzi finali dell’energia elettrica. Questo è proprio il compito del legislatore dimentico del proprio ruolo di creare mercati concorrenziali.
Scartata anche quest’opzione si procedeva con una sovrallocazione e dunque con un’allocazione priva di grandi obiettivi ambientali dal momento che sembra assegnare al settore elettrico un generoso quantitativo di quote.
Il termine “generoso” tuttavia non può fare riferimento a nulla di concreto.
Nel piano di allocazione nazionale non vengono rese pubbliche le assunzioni relative alla domanda di energia elettrica in base alle quali le quote sono state assegnate né vengono presentati scenari di crescita integrati con le costose (perché inefficienti) politiche di sviluppo delle energie rinnovabili e del risparmio energetico.
Una dimenticanza molto grave. Attribuire un eccesso di quote all’elettrico (che per altro gode di un mercato protetto, come quello elettrico) va a discapito degli altri settori nazionali inclusi nella direttiva che dovranno spartirsi un numero inferiore di quote.
Questi peraltro agiscono in mercati: vetro, carta, acciaio, fortemente esposti alla concorrenza internazionale e già stanno pagando politiche di sviluppo delle energie rinnovabili e del risparmio energetico.
Sotto quest’aspetto la miopia del paese è stata inaccettabile.
In un meccanismo che può distribuire un numero limitato di quote, (ed è inutile continuare a sostenere il contrario) perché devo pagare per delle politiche finalizzate alla riduzione delle emissioni di CO2 nel settore elettrico (rinnovabili e risparmio) e non tenere conto di tali politiche nell’assegnazione delle quote ad un settore che per altro si può facilmente rivalere sul consumatore finale attraverso la piena comprensione dei costi opportunità nei prezzi finali???

Se le associazioni industriali, e Confindustria per prima, volessero accettare l’inevitabilità dell’emissions trading e si concentrassero sulle implicazioni di mercato del meccanismo, anziché additarlo come un’inspiegabile stravaganza ambientale, si accorgerebbero che i propri interessi sono stati fortemente trascurati nel processo di assegnazione del primo periodo.
Attenzione pertanto come nel secondo periodo di assegnazione, i progetti di conversione delle centrali di Torrevaldaliga e di Porto Tolle a carbone, entrambe in mano all’operatore dominante, arrecheranno grandi profitti per Enel in grado di valorizzare, attraverso il costo opportunità, oltre 20 milioni di tonnellate di quote di CO2, inevitabilmente sottratte agli altri settori.
Tali conversioni peraltro non determineranno alcun percepibile diminuzione dei prezzi dell’energia elettrica
1) Perché sono in mano all’operatore dominante, 2) perché il prezzo dell’energia elettrica è dato dalla tecnologia marginale, 3) perché il prezzo della quota, internalizzato nei prezzi finali attraverso il costo opportunità, corrisponde al differenziale di prezzo tra il gas ed il carbone, e se questo non è del tutto vero in Italia, non è forse un altro aspetto della mancata realizzazione della concorrenza nel settore gas?

Si prega dunque gli attori industriali di affrontare l’ET in termini privi di preconcetti nei confronti dei meccanismi di protezione dell’ambiente, lasciandosi alle spalle l’infelice prima fase di assegnazione e valutando i reali costi e le reali opportunità del meccanismo.
E’ fondamentale riconoscere l’inevitabilità del costo opportunità e dunque chiedere una più equa distribuzione dei crediti, anche in base ai mercati di riferimento dei rispettivi prodotti, quindi riflettere nuovamente sui presunti benefici economici di conversioni a carbone di centrali a beneficio unico dell’operatore dominante.

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